L'editoriale

Dalla guerra problemi per Putin e Zelensky

Non è una fase facile per il presidente aggredito Volodymyr Zelensky, chiamato ad assistere all’uscita dei suoi soldati dalla trappola di Mariupol
Gerardo Morina
Gerardo Morina
19.05.2022 06:00

Fin dal suo inizio, nessuno dei contendenti si era illuso che la guerra in Ucraina potesse essere una facile passeggiata. Che stia diventando, all’esterno come all’interno dei propri confini, una feroce maratona senza che se ne intraveda un traguardo lo stanno sperimentando entrambi i presidenti dei Paesi coinvolti.

Non è una fase facile per il presidente aggredito Volodymyr Zelensky, chiamato ad assistere all’uscita dei suoi soldati dalla trappola di Mariupol. La dura realtà è che la città dell’Ucraina sud-orientale è caduta e il ritiro del Battaglione Azov, con l’ordine dello stesso Zelensky ai resistenti di cessare i combattimenti, contiene tutta l’amarezza di una resa. Altrettanto difficile da ammettere è che Mariupol rappresenta una preda indispensabile per le ambizioni russe perché significa il completamento del corridoio tra Russia e Crimea. Il patriottismo ucraino subisce così un colpo non da poco. Non diversamente da quello subito però dal presidente Vladimir Putin nel necessario ridimensionamento di un linguaggio che rimanda alla mitologia russa del passato e la sua esaltazione, nella sfilata del 9 maggio scorso, del Reggimento Immortale, composto dai discendenti dei vincitori della Grande Guerra Patriottica.

Perché se è vero che la prima fase della guerra in Ucraina è stata in gran parte un fallimento per la Russia, anche la seconda fase non si sta presentando sotto i migliori auspici. Dopo la mancata presa di Kiev e l’insuccesso subito dal tentativo di defenestrazione del governo ucraino, Putin e i suoi consulenti sono andati via via ridimensionando i loro obiettivi. Mentre è in atto il tentativo da parte delle truppe russe di controllare estese porzioni del Donbass, da parte sua l’Ucraina è riuscita a riprendersi alcuni territori di importanza strategica. In pratica, disponendo di grandi risorse militari, Mosca sta tentando di alimentare una guerra di attrito, accaparrandosi ogni settimana una piccola porzione di territorio e spingendosi ad assumere il controllo dell’Ucraina orientale. Ovviamente mai ammesse dalle fonti ufficiali, le debolezze russe appaiono sempre più evidenti agli osservatori indipendenti.

Risalta in particolare la scarsa abitudine a compiere operazioni ampie e prolungate nel tempo, prova ne è che gli interventi di Mosca in Georgia e in Siria hanno impegnato solo numeri ridotti di militari. Gli esperti dicono poi che l’intelligence russa ha fallito a livello strategico (presupponendo che una parte dell’Ucraina avrebbe accolto i russi come liberatori) ma anche tattico, mancando di informare adeguatamente i reparti militari. Modesto è stato poi il ricorso al ruolo dell’aviazione nonostante l’abbondanza di aerei. I motivi? Cattiva organizzazione, addestramento insufficiente, scarsa predisposizione ad agire con altre componenti. Risultato: i generali russi hanno dimostrato di ricorrere a tecniche obsolete, mandando allo sbaraglio colonne militari che sono ripetutamente cadute nelle trappole dei nemici ucraini ben addestrati. Infine: corruzione nei ranghi, centralismo delle gerarchie, una logistica disastrosa.

C’è di più. Dal Pentagono arrivano dettagli difficilmente sottovalutabili. I progressi ottenuti da Mosca nel Donbass sarebbero rallentati dal fatto che la fanteria non vuole assumersi rischi: nei campi c’è fango e la logistica rimane insufficiente. Peggio ancora: alcuni reparti si sarebbero rifiutati di obbedire agli ordini mentre alcuni ufficiali si dimostrerebbero lenti nell’eseguirli. Segno, anche, che agli uomini sul campo non starebbe arrivando il segno della leadership di Putin. Il quale intraprende la strada di una escalation militare, ma non imparando nulla dalle estreme difficoltà incontrate su quasi tutti i fronti. Senza contare che il presidente russo avrebbe assunto personalmente la guida delle operazioni insieme al capo di Stato maggiore, imponendo la determinazione a controllare qualsiasi decisione, anche a livello di singoli comandanti. E ciò che preoccupa particolarmente il Cremlino è che, anche nei circoli più ristretti, sono ora i «silovikì», ovvero gli uomini che provengono da Difesa, Interno e Servizi segreti, a fare sempre più apertamente sentire le loro voci di dissenso. 

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