Distrazioni digitali e urgenze educative

Ancora una volta il normale buonsenso fa discutere. Come prevedibile ha suscitato il consueto polverone sul nulla, tra l’ammirato, il cauto e il critico, la recente decisione olandese di proibire dal prossimo anno in tutte le scuole obbligatorie del regno l’utilizzo di dispositivi come smartphone, tablet o smartwatch in aula. «Anche se i telefoni cellulari sono quasi intrecciati con le nostre vite, non appartengono alla classe», ha detto il ministro dell’Istruzione Robbert Dijkgraaf, sottolineando che «gli studenti devono essere in grado di concentrarsi e di avere tutte le opportunità per imparare bene». Mentre invece, ha aggiunto, «sappiamo ormai dalla ricerca scientifica che i telefoni cellulari interrompono questo processo fondamentale». Certo non sappiamo che conseguenze potrà avere una simile e sicuramente tardiva decisione ma l’aspetto interessante della notizia, anche sotto il profilo simbolico, è che finalmente il Governo democraticamente eletto di un Paese occidentale abbia stabilito una volta per tutte un’evidenza che è già costata fin troppo al futuro della nostra società: gli smartphone sono stati progettati per catturare e mantenere l’attenzione e quindi creano dipendenza e sono praticamente impossibili da ignorare; un essere umano non può essere «multitasking» e seguire adeguatamente una lezione scolastica con uno smartphone nelle vicinanze è di fatto impossibile; sta emergendo un ampio consenso sociale, e questo lo vediamo anche da noi, sul fatto che gli smartphone in classe sono altamente problematici. Proviamo a ripeterlo ancora una volta: le moderne tecnologie digitali sono uno strumento straordinario, accessibile a tutti e facilmente in grado di migliorare infiniti aspetti pratici (piccoli e grandi) della nostra esistenza quotidiana. Tutti lo usiamo ma non tutti sappiamo farlo consapevolmente perché lo smartphone è uno strumento, appunto, e tale deve rimanere. Non il fine ultimo o l’epicentro di ogni attività umana in cui l’assoluta diseducazione digitale imperante lo ha trasformato, complici più o meno ingenui noi adulti che non siamo stati capaci di proibire, spiegare o limitare e che candidamente continuiamo senza ritegno a dare un pessimo esempio in pubblico e in privato.
Ma se per un cinquantenne che è suddito dello smartphone si può mestamente parlare di superficialità, ignoranza o maleducazione è ovvio che condannare un’altra generazione alla demenza digitale potrebbe davvero deteriorare in modo significativo la comunicazione e la qualità della relazione fra le persone nonché il modo di trasmettere e intendere la cultura in ogni ambito della conoscenza umana. Per questo se la scuola non vuole definitivamente abdicare al suo fondamentale ruolo educativo appare ovvio che gli smartphone ne restino ben lontani e che anzi si mettano in guardia i più giovani (e vulnerabili) dai pericoli insiti nella natura stessa di quei prodigi tecnologici progettati apposta per annientare curiosità, attenzione e capacità di apprendimento.
Pare che Edgar Allan Poe avesse individuato il tempo ideale della concentrazione in novanta minuti, oggi (e lo dicono gli ingegneri di Google non Marsilio Ficino o Pico della Mirandola) la capacità di attenzione di un adolescente oscilla tra gli otto e i nove secondi. Per questo è urgente raggiungere un rapporto sano e virtuoso con la tecnologia. Un rapporto per imparare, nonostante le difficoltà, a mantenere un sufficiente livello di attenzione e concentrazione, per conservare l’unicità e la ricchezza della nostra memoria, per non chiuderci alle relazioni, alle esperienze e, in sostanza, per non guastare il delicato meccanismo dell’orologio che segna il tempo della vita umana. Fin quando non sapremo insegnarlo forse è davvero meglio che, almeno a scuola, gli smartphone rimangano spenti.