Il commento

Dollaro e illusioni in campo valutario

Il dibattito sulla presunta de-dollarizzazione dell’economia mondiale risente attualmente di forzature ideologiche, che rischiano di staccare il confronto dalla realtà
Lino Terlizzi
Lino Terlizzi
09.09.2023 06:00

Il dibattito sulla presunta de-dollarizzazione dell’economia mondiale risente attualmente di forzature ideologiche, che rischiano di staccare il confronto dalla realtà. Le volontà politiche di chi critica gli USA e la loro moneta sono un conto, il quadro concreto è un altro conto. Da un punto di vista direttamente economico, occorre dire che non è in corso una vera de-dollarizzazione, quanto piuttosto un molto parziale riequilibrio dei rapporti di forza tra valute, all’interno del quale peraltro la moneta americana mantiene la sua leadership, che difficilmente perderà.

Per analizzare il peso delle varie monete, i filoni principali da seguire sono due: il grado di utilizzo negli scambi mondiali, la composizione delle riserve valutarie. Sul primo versante, i dati della Banca dei regolamenti internazionali (BRI) mostrano che, a valori 2022, il dollaro USA è ancora di gran lunga la moneta leader negli scambi. Tenendo presente che la somma di tutte le percentuali in questo caso è 200% (i cambi sono sempre tra due valute), la quota del biglietto verde è dell’88%, contro il 90% del 2001. La riduzione è solo di due punti percentuali, in più di venti anni. Il divario con gli inseguitori è di decine di punti. Al secondo posto c’è l’euro, che ha il 30%, contro il 37% del 2001; la moneta unica europea ha dunque perso maggiormente terreno, ma conserva saldamente il secondo posto. Al terzo posto c’è lo yen giapponese, con il 16%, contro il 22% del 2001. Seguono la sterlina britannica (12% contro il 13% del 2001) e lo yuan (7% contro il 4% del 2019, la serie storica cinese è incompleta). La moneta di Pechino è cresciuta, ma la distanza dal dollaro USA rimane enorme.

Parzialmente diverso è il quadro per le riserve valutarie, anche se pure su questo versante il dollaro USA mantiene la leadership. I dati del Fondo monetario internazionale (FMI) relativi al primo trimestre 2013, con somma 100%, mostrano che la quota del dollaro USA è del 59%; qui c’è stata una diversificazione più marcata, visto che nel 2000 la quota era del 71%. Tuttavia anche in questo caso gli inseguitori sono lontani: l’euro è il maggiore e ha il 19%, contro il 18% del 2000; lo yen il 5% contro il 6%; la sterlina britannica il 4% contro il 2%; lo yuan cinese il 2% contro l’1% del 2016. Il franco svizzero, per inciso, è ottavo con lo 0,25% (è ottavo pure negli scambi, con il 5,2%); è lontano, ma la posizione è buona per un Paese piccolo come la Svizzera.

Periodicamente salgono alla ribalta della cronaca Paesi che dichiarano di voler porre fine alla leadership del dollaro USA. Alcuni produttori di petrolio lo hanno detto. Ora inoltre c’è il gruppo dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) che intende allargarsi e che pure ha affermato di voler ridimensionare seriamente il dollaro. Sono prese di posizione legittime, ma non si capisce bene come possa venir meno la leadership valutaria americana. Visti i numeri, realisticamente ci potrà essere tutt’al più qualche punto di ulteriore diversificazione, sempre però con il dollaro USA ampiamente primo. Voler insidiare il primato del biglietto verde ha il sapore dell’illusione. A parte l’euro, che è una novità valutaria degli ultimi venti anni e che comunque a sua volta difficilmente potrà andare oltre il secondo posto, tutte le altre valute potranno nel migliore dei casi guadagnare alcuni punti, ma non superare il dollaro. Una certa diversificazione valutaria è positiva, ma occorre tenere i piedi per terra.

Il peso di una moneta negli scambi economici e nelle riserve valutarie è determinato da un insieme di fattori. C’è l’importanza dell’economia che sta dietro la moneta, certamente. Però questo non è il solo fattore, perché gli USA ad esempio rappresentano circa il 25% dell’economia mondiale, ma il dollaro americano ha quote ben maggiori sia negli scambi sia nelle riserve. Incidono dunque anche la credibilità e l’affidabilità, dal punto di vista dello sviluppo dell’economia di mercato, del sistema Paese che esprime quella moneta. Il peso politico anche gioca un ruolo, e nel caso degli USA certo ciò esiste, ma questo pur importante elemento non basta a dare una posizione leader in campo valutario, occorrono anche altri fattori rilevanti, legati alle certezze economiche che devono esserci per il mercato e per gli scambi.