L'editoriale

E se fosse Francesco a fermare la guerra?

Nessuno, tra i leader occidentali, è riuscito fin qui ad assumere efficacemente il ruolo di mediatore
Paride Pelli
07.04.2022 06:00

Nel mare magnum di informazioni che ci giungono dall’Ucraina, diventa difficile distinguere il falso dal vero: le fotografie e i video, impressionanti nella loro crudezza, nascondono l’insidia di essere stati costruiti, ritoccati o manipolati con lo scopo di trasformare la realtà in propaganda, a favore di una parte come dell’altra. È quindi ragionevole usare prudenza e mantenere un occhio critico su quanto osserviamo a duemila chilometri di distanza: senza, per questo, diventare indifferenti dinanzi a quelle notizie, verificate sul posto da inviati e reporter, che ci riferiscono di massacri di civili e di fosse comuni scoperte in quelle regioni dell’Ucraina sotto invasione russa. È questa una guerra nella guerra, con atrocità ancora più ingiustificabili di quelle che un conflitto militare porta con sé: civili colpiti a freddo, torture, spari sulle auto con a bordo donne e bambini che cercano disperatamente di lasciare le città ormai diventate prigioni. Un’escalation di orrori che prosegue a ritmi serrati, nella quale i negoziati tra Russia e Ucraina sembrano solo un modo per studiarsi a vicenda, per prendere tempo, per soppesare le relazioni geopolitiche del nemico, senza che l’ipotesi di una tregua diventi concreta. E ogni giorno che passa è di troppo. L’Europa, dal canto suo, si è finora limitata a condannare fermamente l’invasione e a varare stringenti sanzioni contro Mosca, ma sempre con un sottaciuto senso di impotenza, compensato a malapena dalla grande accoglienza subito organizzata per coloro che potremmo paradossalmente definire «i fortunati», essendo riusciti a lasciare l’inferno. Non è poco, ma non è sufficiente a spegnere il fuoco che sta divampando, sempre più minaccioso anche per noi, in Ucraina.

Nessuno, tra i leader occidentali, è riuscito fin qui ad assumere efficacemente il ruolo di mediatore, di organizzatore di summit decisivi. E nessuno sembra riuscire a farsi ascoltare nel frastuono continuo dei missili e delle bombe: neppure il Papa. Il quale è stato criticato per non aver ancora esplicitamente nominato, nei suoi interventi a favore della pace, la Russia o Vladimir Putin. Critiche infondate. Mai, in passato, i Pontefici hanno pronunciato il nome dell’aggressore: e non per pavidità o timore di ritorsioni, ma per lasciare aperto un seppur ridottissimo spiraglio diplomatico, un minuscolo margine di trattativa. Come le altre, anche quella di Francesco è tuttavia una voce che oggi, purtroppo, predica nel deserto. Forse per questo, ieri, i toni di Bergoglio si sono fatti ben più decisi: «Nell’attuale situazione, assistiamo all’impotenza delle Organizzazioni delle Nazioni Unite. Oggi si parla spesso di geopolitica, ma purtroppo la logica dominante è quella delle strategie degli Stati più potenti. Lo stiamo vedendo con la guerra». Il fatto che la possibilità di un viaggio del Papa a Kiev sia ancora sul tavolo significa che la necessità di un negoziato sta diventando sempre più urgente e che alle parole, tante, troppe, ora devono seguire i fatti e soprattutto le azioni, anche quelle più eclatanti.

Il Vaticano si muoverà, ha annunciato Bergoglio nei giorni scorsi, «a costo di sfidare qualche potente, tristemente rinchiuso in anacronistiche pretese di interessi nazionalisti, che provoca e fomenta conflitti, brutali combattimenti nelle strade e minacce atomiche». Pure in questo caso il nome di Putin non è mai stato pronunciato, ma che il destinatario di tali parole sia il presidente russo è fuori di dubbio. Se il conflitto non si interromperà a breve, anche solo per una tregua, la trasferta in Ucraina potrebbe dunque diventare l’extrema ratio per ottenere un «cessate il fuoco» attraverso un gesto spirituale di grande impatto. Sarà davvero l’85enne Francesco a provare a fermare la guerra, da solo sul campo di battaglia, armato del suo verbo e della sua forza morale?

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