L'editoriale

Berna-UE, un sussulto di mezza estate

Se Jans voleva accendere il dibattito, finora dormiente a livello pubblico, e avviare una dinamica che facesse da contrappunto alla narrazione UDC, ha mancato l’obiettivo
Giovanni Galli
14.08.2024 06:00

Partiti a fine marzo, i negoziati fra Berna e Bruxelles per un nuovo pacchetto di accordi bilaterali dovrebbero concludersi, ufficiosamente, entro la fine dell’anno. Se tanto ci dà tanto, questo significa che sta per essere superato il giro di boa, anche se la parte più difficile deve ancora venire. Prima delle vacanze estive, il Consiglio federale ha fatto il punto sui lavori, dicendo che in diversi settori sono stati compiuti progressi concreti, mentre in altri, come l’immigrazione e la protezione dei salari, ci sono ancora divergenze. A parte la polemica sul tipo di maggioranza che sarà richiesto un domani per la votazione popolare (semplice o doppia con i Cantoni) tutto sembrava proseguire sotto la linea dei radar. Se non che, il consigliere federale Beat Jans ha tentato di movimentare il dibattito con un intervento a sorpresa a sostegno di un accordo con Bruxelles. In un contributo pubblicato sulla NZZ, il capo del Dipartimento di giustizia e polizia ha contestato la tesi dei contrari, secondo cui un’intesa si tradurrà in una perdita di sovranità per la Confederazione a causa della ripresa dinamica del diritto e del ruolo preminente della Corte di giustizia europea nella risoluzione delle divergenze. Ha affermato, anzi, che la sovranità e la capacità d’azione della Svizzera saranno rafforzate da eventuali nuovi accordi bilaterali. L’intervento di Jans ha subito innescato la reazione dell’ex consigliere federale Ueli Maurer che ha letto nell’opinione del «ministro» socialista un cambiamento di paradigma del Governo, suscettibile di mettere in pericolo l’indipendenza del Paese. Ci sono poi state alcune reazioni isolate da un fronte e dall’altro, senza un grande seguito. 

Da questo sussulto di mezza estate, tuttavia, si possono trarre alcune indicazioni. Se Jans voleva accendere il dibattito, finora dormiente a livello pubblico, e avviare una dinamica che facesse da contrappunto alla narrazione UDC, ha mancato l’obiettivo. A parte gli interventi di alcune frange delle opposte tifoserie, la discussione non ha decollato e si è spenta nel giro di pochi giorni. Il tema dei rapporti con l’Europa è stato totalmente ignorato nei discorsi del 1. agosto dei consiglieri federali. Anche quella parte della classe politica che in teoria dovrebbe essere più propensa a un’intesa, PLR e Centro, si mantiene cauta e preferisce gestire la palla bassa. Jans si è smarcato, profilandosi come il «ministro» più convinto di fare un passo avanti nella causa bilaterale, ma si è anche preso due rimproveri: quello del presidente del PLR Thierry Burkart, per essersi espresso a trattative in corso, dando l’impressione che la Svizzera sia pronta ad accettare tutto; e quello del collega di Governo Albert Rösti, secondo cui, in tutti i campi, va rispettata la leadership nella gestione dei dossier. Alla luce dell’uscita un po’ sorprendente per perentorietà del messaggio e scelta di tempo - secondo Jans era stata comunque concordata con Ignazio Cassis - sorge anche qualche interrogativo sul grado di coesione nel Consiglio federale sul dossier europeo. La circospezione è comprensibile in una fase delicata come questa ma potrebbe anche nascondere le divisioni interne e una mancanza di strategia su come gestire la fase successiva. La spia si è accesa proprio con il comunicato di fine giugno, quando il Governo non è stato in grado di dire se per la consultazione popolare (verosimilmente nella prossima legislatura) proporrà la sola maggioranza dei votanti o anche quella dei Cantoni. Questa impressione è rafforzata anche dalla risposta (no senza controprogetto, con alcune misure di accompagnamento per attenuare gli effetti dell’immigrazione) all’iniziativa popolare dell’UDC per dire no a una Svizzera da dieci milioni di abitanti.

Le poche ma significative reazioni critiche all’intervento di Jans hanno confermato che la grossa pietra d’inciampo nella ricerca di un rapporto più stretto con Bruxelles è innanzitutto istituzionale e riguarda il modo di far convivere la democrazia diretta con le richieste europee in termini di ripresa del diritto e di composizione delle controversie nell’attuazione dei futuri accordi. I quali potranno avere una chance di essere approvati a livello popolare soltanto a due condizioni, ancora lontane: che al di là delle obiezioni europee si trovi una soluzione concreta per frenare l’immigrazione (ieri sulla NZZ il presidente del Centro Gerhard Pfister ha spezzato una lancia a favore di una clausola di salvaguardia unilaterale) e che ci sia anche il consenso dei sindacati; ottenibile, però, solo con contropartite interne sul mercato del lavoro da parte del mondo economico.