Dal Rolex al lingotto personalizzato: se i privati danno una mano ai negoziati

Alla fine è dunque stato raggiunto un accordo fra Donald Trump e Berna: i dazi americani che entreranno in vigore contro la Confederazione non saranno del 39%, come imposto ad agosto dal tycoon, ma «solo» del 15%. In più, la Svizzera dovrà fare massicci investimenti negli USA e allineare i propri mercati ad alcuni dettami statunitensi. Difficile affermare che tutto questo porterà anche un solo beneficio alla nostra economia, ma che gli Stati Uniti volessero divorziare dal Vecchio Mondo lo abbiamo scritto senza indugio su queste colonne fin dal primo annuncio delle tariffe, la scorsa primavera. E i divorzi li conosciamo: non sono mai indolori. C’è però un altro aspetto della trattativa sui dazi che sta facendo discutere negli ultimi giorni: il fatto che, nel pieno dei negoziati istituzionali, sia arrivata alla Casa Bianca, il 4 novembre scorso, una delegazione di sei dirigenti di grandi imprese svizzere, dal settore delle materie prime a quello orologiero. Il gruppo non aveva nessun mandato negoziale del Governo: si è trattato di una piena iniziativa privata, sebbene profondamente intrecciata alla politica nazionale e magari anche, si spera, comunicata anzitempo a Berna. Assenti dalla delegazione i rappresentanti dell’industria chimico-farmaceutica, che ha un suo peso specifico nel deficit commerciale USA con la Svizzera (un deficit, va precisato, più che normale in un contesto di libero mercato ma che è stato usato da Trump come pretesto per l’imposizione di dazi). Questo settore per noi strategico, stando a varie fonti, stava infatti conducendo con Washington una trattativa parallela (ebbene sì, un’altra). Infine, è stato riferito che la delegazione dei sei dirigenti si è presentata dal tycoon con diversi regali, tra cui un lingotto d’oro personalizzato da 130 mila dollari e uno scenografico orologio da scrivania Rolex e che questo - ça va sans dire - abbia migliorato di molto l’atmosfera in cui si sono svolti i colloqui. Al punto che Trump si è messo a elogiare la Svizzera e la sua formidabile economia.
Ora una riflessione si impone quasi da sola. Le strategie diplomatiche di Berna e quelle di lobbying del settore privato elvetico sono certamente riuscite, lavorando di concerto, a limitare - e non di poco - i danni. Uno scontro frontale (un altro?) con un temperamento sanguigno come quello di Trump sarebbe stato catastrofico. Resta tuttavia una perplessità: da un simile tandem pubblico-privato, il Governo ne esce un poco indebolito nella sua immagine, e va ricordato come avesse già ricevuto uno smacco non da poco a causa della fallimentare telefonata tra la presidente Karin Keller-Sutter e lo stesso Trump, il 31 luglio scorso. Lo scatto in avanti delle imprese private verso Trump somiglia insomma a un estremo tentativo di soccorso prima di un probabile naufragio, con conseguenze pesantissime per il nostro Paese.
In ogni caso, la situazione generale non va presa sottogamba: l’Atlantico si è fatto più profondo, la sponda americana più lontana, il mondo, come rilevano gli analisti, sta diventando rapidamente multipolare. Per Berna sarà sempre più necessario trattare, e bene, con Paesi o federazioni di Paesi intenzionati a non dare nulla per scontato dal punto di vista degli interscambi commerciali e culturali. Non vorremmo che pure questa incombenza toccasse sempre più ai privati, che con il loro innegabile pragmatismo hanno aiutato in questo caso non poco la politica.

