È allarme recessione per l'economia americana

L’economia statunitense è sull’orlo del precipizio della recessione. È con queste parole che la stampa nordamericana ha accolto la contrazione del PIL - la prima dal 2022 - da gennaio a marzo. Si tratta di una contrazione lieve (0,3%) su base annuale rispetto al +2,4% - sempre su base annuale - dell’ultimo trimestre dell’anno scorso. È però indicativa del clima di sfiducia da parte di famiglie e imprese che si sta abbattendo sulla principale economia mondiale dal ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump. A contribuire alla performance negativa sono state la diminuzione della spesa pubblica (-5,1%) e l’aumento record delle importazioni (+41%). Queste ultime sono conteggiate negativamente nei calcoli del Prodotto interno lordo (PIL) e sono cresciute perché le imprese hanno fatto incetta di beni esteri per anticipare i dazi, prima annunciati e poi parzialmente sospesi, dal presidente Trump. Il dato negativo del PIL è quindi anche frutto delle strategie messe in atto dalle aziende per limitare gli effetti negativi dell’aumento dei dazi doganali.
A questo si aggiunge un crollo della fiducia dei consumatori statunitensi che è scesa ai minimi dal 1990. Questo indica che l’economia globale si trova in una situazione molto diversa rispetto a quella di solo pochi mesi fa, il che potrebbe incoraggiare le aziende a sospendere i piani d’investimento ed espansione fino a quando le prospettive non saranno meno incerte. Se per ora non si può parlare di recessione vera e propria - sono necessari, infatti, due trimestri con il segno negativo per definirla almeno tecnica - le previsioni degli analisti indicano però un forte aumento del rischio di recessione in generale: Goldman Sachs ha alzato la probabilità al 45%, mentre il Fondo monetario internazionale l’ha portata al 40%. J.P. Morgan addirittura stima una probabilità del 60% entro la fine del 2025. Anche per l’Europa i segnali di rallentamento, a dir la verità già in atto prima dell’avvento delle politiche protezioniste di Trump, sono evidenti. Nel primo trimestre del 2025, l’economia dell’area euro ha registrato una crescita media dello 0,4%, superando le aspettative grazie alla forte performance di Irlanda e Spagna. Tuttavia, le principali economie come Germania, Francia e Italia hanno mostrato una crescita più contenuta, rispettivamente dello 0,2%, 0,1% e 0,3%. Nulla di rallegrante, siamo ancora a valori da prefisso telefonico. La Svizzera, dal canto suo, per ora non mostra forti segni recessivi e i principali istituti di previsione stimano tassi di crescita per quest’anno - con l’eccezione del BAK Economics – superiori all’1%. Sappiamo però che l’economia elvetica è molto correlata alle dinamiche internazionali in generale e continentali in particolare. E se queste ultime non brillano, l’ombra della recessione non può essere scacciata del tutto nemmeno da noi. Tornando agli Stati Uniti, se nei prossimi mesi dovesse confermarsi una contrazione dell’economia e allo stesso tempo l’inflazione rimarrà significativamente al di sopra dell’obiettivo del 2% fissata dalla Federal Reserve, lo scenario di una stagflazione - la combinazione di stagnazione economica e inflazione - è forse quello più plausibile.
La Fed si trova nella difficile situazione di far prevalere solo uno dei due obiettivi di politica monetaria: stabilità dei prezzi, ma anche una crescita economica che miri alla diminuzione della disoccupazione. Non è detto che alla prossima riunione della banca centrale statunitense (il 6 e 7 maggio) giunga il taglio dei tassi atteso e chiesto maldestramente a gran voce dalla Casa Bianca. Insomma, se la direzione attuale dovesse proseguire senza correzioni, gli Stati Uniti rischierebbero di entrare in una fase di stagnazione prolungata. La combinazione di crescita in calo, inflazione persistente e politiche commerciali aggressive non è sostenibile nel lungo termine. Le autorità politiche e monetarie dovranno agire in modo coordinato e tempestivo per evitare che questa fase si trasformi in una crisi sistemica.