Editoriale

Elon Musk interprete del mondo digitale

Visionario, folle, padrone del vapore, eclettico, illuminato, reazionario, egocentrico, opportunista e anche trumpiano: il fondatore di Tesla è stato definito in tanti modi e non tutti sono lusinghieri
Generoso Chiaradonna
12.11.2022 06:00

Visionario, folle, padrone del vapore, eclettico, illuminato, reazionario, egocentrico, opportunista e via aggettivando. Ultimamente è stato addirittura definito trumpiano, epiteto che può marchiare in modo indelebile chi lo riceve. Insomma, Elon Musk è stato definito in tanti modi e non tutti sono lusinghieri. L’acquisizione della piattaforma social Twitter da parte del fondatore di Tesla e la modalità con cui ha comunicato il dimezzamento della sua forza lavoro ha generato sentimenti contrastanti sia nel campo progressista, sia in quello conservatore. Ha disorientato entrambi, per intenderci. Un po’ come se l’orientamento politico dell’uomo più ricco del mondo dovesse riverberarsi su chi acquista i suoi prodotti e usa i suoi servizi. Ma se compro una Tesla e voto a sinistra, allora sto sbagliando qualcosa? E se invece votassi a destra? Guidare un’auto elettrica potrebbe essere vista come una scelta ambientalista da radical chic, realtà che in cuor mio aborro? A parte gli scherzi, il dilemma etico per molti, dopo la burrascosa acquisizione di Twitter, potrebbe essere forte e sentita.

Eppure, Musk, al pari di altri prima di lui, è uno dei pochi imprenditori che possono essere definiti innovatori. Di quelli, cioè, che segnano un’epoca per sempre. Lo ha fatto con l’automobile, costringendo la vecchia industria del motore a combustione ad accelerare la transizione verso la mobilità elettrica e anche con i vettori spaziali grazie alla Space X. Chiedersi se Musk è progressista o reazionario è quindi inutile, come lo era chiederselo di Steve Jobs, il fondatore di Apple. Sono i loro prodotti a parlare per loro. Entrambi i personaggi hanno anticipato il futuro e contribuito a plasmare il presente di tutti noi, tanto che anche i concorrenti si ispirano alle loro innovazioni: i telefonini – tutti – si scorrono con un pollice e le auto elettriche, oltre a dover essere efficienti e possibilmente accessibili in termini di prezzi, devono almeno evocare nelle forme una fuoriserie per attirare l’attenzione dei potenziali acquirenti.

Basta scorrere la lista delle principali società statunitensi quotate per rendersi conto che il vecchio mondo è cambiato. E per sempre anche. Quelle a maggiore capitalizzazione sono tutte nate al più tardi 50 anni fa. E alcune di queste hanno meno di trent’anni e sono attive nel settore della tecnologia della comunicazione che non identifica solo – come spesso viene sbrigativamente definita – l’economia delle app. Definizione quest’ultima che rimanda ad attività economiche quasi eteree, impalpabili ma che in realtà rimangono ben ancorate alla vecchia economia fisica. Senza server; senza produzione di energia elettrica, senza le varie antenne fatte di acciaio e cemento; senza soprattutto le persone con le loro competenze peculiari, non esisterebbe l’economia digitale.

Tornando agli interpreti di questo nuovo mondo, troviamo, nell’ordine: Apple, Microsoft, Google e Amazon. Al quinto posto c’è la Berkshire Hathaway, società finanziaria di Warren Buffet, quasi un’intrusa. Mentre al sesto posto Tesla. Si tratta delle società americane a maggiore capitalizzazione. Meta, il cappello sotto il quale stanno Facebook e WhatsApp, è caduta in po’ in disgrazia avendo ridotto di circa il 70% il suo valore di borsa. Ora vale soltanto, si fa per dire, 297 miliardi di dollari. Escludendo la holding di Buffet, tutte queste imprese occupano direttamente circa due milioni e mezzo di persone nel mondo e valgono quasi 8 mila miliardi dollari; mentre producono beni e servizi per oltre 2 mila miliardi dollari. Sono cifre, per intenderci, analoghe o superiori a quelle del Pil annuale di grandi economie come la Germania (4.200 miliardi di dollari) e l’Italia (2.100 miliardi di dollari).

 Il licenziamento in massa di migliaia di persone però ha sorpreso, soprattutto per le modalità con cui sono stati annunciati e attuati. A quelli comunicati da Musk (3.500 circa) via Twitter, naturalmente, si sono aggiunti gli undicimila di Meta che rappresentano circa il 13% del totale dei dipendenti del social più noto. Un taglio importante che riporta alla brutale realtà di conti da far quadrare e azionisti da accontentare, almeno per quanto riguarda Facebook. Twitter invece ha ora un solo padrone che interpreta appieno il nuovo modo di fare impresa. Per lui oltre ai suoi prodotti, come detto, parla la sua storia personale. I primi milioni di dollari, qualche decina, li ha guadagnati a 24 anni assieme a suo fratello Kimbal. Avevano fondato all’inizio degli anni 90 una startup – la Zip2 – poi acquistata dalla Compaq (Hewlett-Packard) che permetteva ai giornali, allora agli albori del web, di offrire delle guide di viaggio online ai loro lettori. Qualche anno dopo arrivò PayPal, un’altra startup che favoriva (lo fa ancora) i pagamenti online e quindi il commercio di beni e servizi che nel frattempo è esploso. Con la sua vendita arrivarono altri milioni di dollari, centinaia questa volta che sono diventati decine di miliardi con le altre imprese di Musk. Con queste premesse, è certo che con Twitter darà un’altra svolta all’economia digitale.

Già solo il fatto che ha introdotto una sorta di abbonamento mensile da otto dollari per avere il proprio profilo verificato con la spunta blu, facendosi maledire da subito dagli utenti di vecchia data, lo rende atipico rispetto ad altri imprenditori del web: dare un valore economico a un servizio venduto fino a poco tempo fa come falsamente gratuito.