L'editoriale

I cinque in Governo e i loro partiti

Non si può considerarlo un rapporto d’amore e d’odio, ma certamente è giocato sulle variabili della dipendenza-indipendenza, con abilità da una parte e dall’altra, a geometria variabile, seguendo quella che in politica è la regola delle regole: la convenienza
Gianni Righinetti
24.05.2023 06:00

Non si può considerarlo un rapporto d’amore e d’odio, ma certamente è giocato sulle variabili della dipendenza-indipendenza, con abilità da una parte e dall’altra, a geometria variabile, seguendo quella che in politica è la regola delle regole: la convenienza. Parliamo dell’equilibrio che due parti centrali della politica in Ticino, i consiglieri di Stato e i loro partiti di riferimento, si trovano costretti a dover trovare. O forse dovremmo parlare al passato, perché qualcosa sta cambiando, per ora nelle intenzioni, ma che rimane tutto da saggiare e soppesare una volta che si passerà ai fatti. Emblematica è la situazione all’interno della Lega, movimento che si è fatto partito, che ha sfondato nel 2011 conquistando due seggi in Governo ma che ha finito per trovarsi vittima del suo successo. Tanto brillante nel mantenere i due seggi nell’Esecutivo (anche grazie al sostegno della stampella dell’UDC), quanto disastroso nel perdere forza in Parlamento. Il successo di ieri ha mostrato il rovescio della medaglia che ha portato a una reazione immediata e per certi versi infantile. Fare i filo-governativi non funziona? E allora si impugna il piccone e voilà, di punto in bianco si va all’opposizione, contro tutto e tutti. In realtà più tutto che tutti, perché ora si tenta di smontare anche la linea del proprio consigliere di Stato, ma facendo credere che il problema è il tema e non la politica del proprio eletto. Così Norman Gobbi si trova i suoi a remare contro sulla questione dei radar, ma anche sull’acquisto che si vorrebbe come «strategico» del palazzo EFG per dare vita alla controversa «cittadella della Giustizia». Gobbi, da politico navigato, fa buon viso a cattiva sorte, anche perché nel suo percorso ha già dovuto lottare contro il fuoco nemico, ma ora si trova di fronte ai «nemici interni». Ma quanti seguiranno la scommessa che guarda alla verve barricadera del passato? E questo basterà a fare rientrare quei leghisti che hanno voltato le spalle? Per ora, curiosamente, la politica e i dossier di Claudio Zali sono per contro salvati o ignorati.

Intanto nel PLR, dove le critiche del passato a chi stava in Governo correvano sull’asse delle correnti liberale e radicale, si registra una inedita insofferenza nei confronti di Christian Vitta (mister voti 2023), reo, a detta di Fulvio Pelli, di «non presentare le riforme che dovrebbe presentare». La critica ci sta, ma quella su mosse fatte o mancate espressa solo a posteriori dopo le elezioni, suscita qualche legittimo interrogativo.

I più abili appaiono i politici del Centro che, dopo la battaglia interna del 2019, hanno giurato fedeltà piena a Raffaele De Rosa, che ha messo a freno l’impeto di Fiorenzo Dadò e dei suoi che avrebbero voluto essere un poco più incisivi sul finire della scorsa legislatura quando era in discussione il decreto per il pareggio dei conti entro il 2025.

Il più autentico e aperto scambio sincero di idee lo si è registrato a sinistra con Manuele Bertoli, ad esempio, qualche anno fa, determinato a difendere la riforma governativa «fisco sociale» e con il fronte rossoverde capitanato dal PS, a combatterla fallendo però clamorosamente il referendum sul quale si puntava per portare i cittadini alle urne. Solo i prossimi mesi ci diranno come e se cambierà qualcosa con Marina Carobbio a rappresentare il fronte di sinistra nell’Esecutivo.

Sta di fatto che qualcosa sta mutando e che, complice anche la frammentazione, molte dinamiche sono destinate a cambiare, un fatto che non potrà lasciare indifferente chi siede in Governo e neppure il gremio nel suo insieme, abituato ad accordarsi a prescindere, ma il mutamento del clima esterno alla politica del Palazzo, potrebbe generare anche qualche scossa interna. Perché quando bastava fare quadrato tra cinque persone e tutti portavano bene o male a casa quello che presentavano, tutto era facile e lineare. A nessuno in politica (compreso a chi siede in Governo) piace la sconfitta e questo potrebbe indurre a pensare più ai propri interessi che a quelli del collegio. Tanto più quando si constaterà che raggiungere la maggioranza in Gran Consiglio in molte occasioni diventerà un gioco d’azzardo. Ma c’è un altro gioco che appare ancora più rischioso e in grado di generare confusione tra il sempre più ridotto numero di elettori. Dare un colpo al cerchio (facendo i governativi o i dipartimentali) e uno alla botte (facendo opposizione e ostruzionismo) non è in linea con il sistema vigente. Meglio allora essere coerenti fino in fondo e adottare il maggioritario sia per l’elezione del Governo che per quella del Parlamento. Un passo che non può attendere e che merita di essere intrapreso a partire da subito per essere pronti nel 2027. Chi avrà il coraggio di muoversi e di ammettere che occorre un cambio di paradigma?

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