I compleanni sudati dell’uomo con la stella

Stortignaccolo, sgraziato, gli occhiali da vista con la montatura pesante, a vederlo così male in arnese sul trentaseienne Shaul Ladany quel giorno di ottobre in Ticino non avrebbero scommesso in molti. Invece in quella fredda domenica del 1972 il tenace marciatore israeliano sbaragliò l’agguerrita concorrenza aggiudicandosi il titolo mondiale sulla prestigiosa cento (dicasi cento) chilometri di marcia (una gara così devastante da non esistere più, nemmeno in quest’epoca di ultramaratone e di folli dislivelli verticali) nell’ottimo tempo di nove ore, trentotto minuti e cinquantasei secondi. Stremato, quell’homme qui marche così lontano dalla silhouette giacomettiana, seppur raggiante e fiero, non nascose nelle prime interviste un piccolo rammarico: non era riuscito a migliorare il suo personale sulla folle distanza. Non era stata tanto la neve che aveva salutato gli atleti alla partenza da Olivone a infastidirlo e nemmeno l’insidioso tentativo di rimonta sulle rampe del Ceneri dello svizzero Badel, formidabile in salita, a metterne in forse le certezze, quanto piuttosto un allenamento inadeguato nelle ultime settimane. Perché Shaul Ladany le ultime settimane le aveva passate a spiegare, quasi giustificandosi, a tutti (dalle forze di polizia dell’allora Germania Occidentale agli alti papaveri del CIO, fino ai giornalisti di mezzo mondo e alle autorità sportive e non del giovane Stato d’Israele) come aveva fatto nella notte tra il 5 e il 6 settembre nel villaggio olimpico di Monaco di Baviera a salvarsi dalla furia omicida dei terroristi di Settembre Nero e perché per lui era così importante prendere parte comunque, come rappresentante ufficiale del suo Paese, alla gara di Lugano. Ed è importante ricordare la sua storia incredibile e struggente di unico superstite di quella tragedia, raccontata nei dettagli nel bel libro di Andrea Schiavon Cinque cerchi e una stella, proprio in occasione del cinquantennale del massacro di Monaco che da mezzo secolo pesa come un’ombra sulla coscienza collettiva europea. Alle Olimpiadi di Monaco del 1972 l’ingegner Shaun Ladany era «la squadra» di atletica leggera d’Israele, l’unico di tutta la delegazione direttamente sopravvissuto all’Olocausto (due anni a Bergen Belsen), selezionato per la 50 chilometri di marcia, il 3 settembre era giunto diciannovesimo «dimostrando finalmente ai tedeschi che cosa può fare un uomo con la stella di Davide sulla maglietta» quando la Storia due giorni dopo, nell’Unità 2 di Connollystrasse 31, rischiò davvero di travolgerlo. Di sicuro furono proprio lo spirito olimpico e i suoi ideali ad essere profanati dai terroristi palestinesi inviati da Arafat per attirare l’attenzione occidentale con un’azione clamorosa a trucidare undici persone inermi, giunte ai Giochi di Monaco per difendere con orgoglio i colori del loro giovane Paese, fiduciosi negli ideali di pace, amicizia e lealtà sportiva. Per la prima volta dopo l’Olocausto, in terra tedesca (il villaggio olimpico dove avvenne l’attacco dei terroristi distava non più di dieci chilometri dal lager di Dachau) delle persone innocenti e indifese furono torturate, umiliate e uccise per il semplice fatto di essere ebree. Oggi Shaun Ladany vive a Be‘er Sheva ed è un simbolo di memoria e di resistenza al male. Non solo a quello inflitto con le armi e con la violenza ma anche a quello più subdolo e oltraggioso delle omissioni, delle reticenze, degli omaggi mancati e delle responsabilità mai accertate fino in fondo da chi ha tutto l’interesse a confondere torti e ragioni. Come quel giorno di gloria a Lugano, Ladany continua a marciare indomito e ad ogni compleanno infila la sua canottiera con la stella e macina la strada per un numero di chilometri pari alla sua età. Il prossimo aprile i chilometri da sudare saranno ottantasette perché, come ripete sempre, «sopravvivere è un caso fortunato, rivivere è ogni volta una scelta».