L'editoriale

I diritti e i doveri tra scuola e sciopero

La polemica monta da mesi: da una parte c’è il Consiglio di Stato e la modifica delle regole per 16.000 dipendenti pubblici potenzialmente coinvolti dalla riduzione delle rendite pensionistiche del 20%, dall'altra troviamo i sindacati, la sinistra e i dipendenti stessi
Gianni Righinetti
09.05.2023 06:00

La polemica monta da mesi. Da una parte c’è il Consiglio di Stato e la modifica delle regole per 16.000 dipendenti pubblici potenzialmente coinvolti dalla riduzione delle rendite pensionistiche del 20% se non ci fossero misure di compensazione. Dall’altra troviamo i sindacati, la sinistra e i dipendenti stessi riunitisi nella Rete per la difesa delle pensioni. Ci sono poi alcune forze politiche che si sono schierate, altre che nicchiano ponderando i vantaggi e l’effetto boomerang di una discesa in campo al fianco degli uni o degli altri per giocare la partita. L’oggetto del contendere è la sempre discussa Cassa pensioni dei dipendenti pubblici che, nonostante la cura da cavallo del 2012 quando il Parlamento approvò un piano di risanamento con lo stanziamento di un credito pari a 450 milioni di franchi per fare riprendere quota al grado di copertura, rimane nelle sabbie mobili. Nero su bianco abbiamo constatato che quella massiccia operazione costata all’intera collettività ha prodotto solo l’illusione di un futuro più florido.

Poi nel 2020 era stata ipotizzata un’altra iniezione prossima al mezzo miliardo di franchi per far fronte ai maggiori costi delle garanzie concesse nel 2012, ma questa ipotesi era politicamente irrealistica, così la politica, tra il muro contro muro contraddistinto dal sì e il no, ha trovato una terza via di compromesso: 700 milioni quale anticipo di contributi futuri da investire in azioni. Ma nessuna illusione, era stato il monito del direttore del DFE Christian Vitta, si trattava solo di un primo passo, non della soluzione a tutti i problemi né la scorciatoia per raggiungere la sostenibilità della Cassa pensioni. La diminuzione del tasso di conversione, lo si sapeva, era un tema rimasto sul tavolo per Governo e Gran Consiglio. Ed eccoci dunque ai giorni nostri, senza alcuna bacchetta magica ma con sul tavolo la mossa abbozzata del Governo e da inizio anno al centro di trattative con i sindacati per il rifinanziamento dell’IPCT nel tentativo di salvaguardare il livello delle rendite.

La seduta che potrebbe essere decisiva è agendata per la fine di maggio. Ma la strada per una soluzione al problema (difficilmente accettata da tutti) rimane molto lunga, nella certezza che se non si arriverà ad una soluzione condivisa entro il 2024 il progressivo calo delle pensioni del 20% potrebbe diventare una realtà imposta dal profilo tecnico. Intanto per domani, mercoledì 10 maggio, è stata indetta una giornata di mobilitazione e sciopero che va verso l’adesione massiccia un po’ in tutti i settori. Sit-In, striscioni, slogan e dipendenti pubblici pronti ad incrociare le braccia e a farsi sentire per dire «giù le mani dalle pensioni!».

Lo sciopero è un diritto costituzionale che nessuno intende mettere in discussione, quella di manifestare è un’azione che sta riprendendo vigore forse anche sull’onda di quanto avviene ad esempio in Francia (ma per fortuna non con analoga violenza e distruzione) dove ad essere contestata è proprio la riforma delle pensioni voluta da Emmanuel Macron. Sull’utilità delle manifestazioni di massa si possono avere differenti opinioni ed è la libertà che ci concede la nostra amata democrazia.

Ma è sugli effetti che occorre un po’ d’attenzione e molto equilibrio. Questo è quanto è mancato a chi negli scorsi giorni è andato un po’ lungo. Tra i dipendenti pubblici ci sono anche i docenti e la protesta verrà seguita in diverse sedi. Quindi non ci saranno regolari lezioni bensì un non meglio precisato intrattenimento. Per non avere problemi, poi, c’è chi ha rivolto ai genitori questo messaggio: «Invitiamo caldamente tutte le famiglie che possono garantire la cura dei loro figli nella mattina del 10 maggio, a non mandarli a scuola».

C’è da rimanere allibiti, una frase letteralmente inopportuna e inaccettabile che avrebbe meritato una risposta immediata da parte del vertice politico della scuola. Certamente si potrebbe obiettare che se scioperare è un diritto, le conseguenze non debbano interessare gli scioperanti. Però c’è un «ma» grande come una casa: come la mettiamo con il diritto degli studenti all’istruzione? E con quello delle famiglie a mandare i figli a scuola? Nella vita ci sono diritti e doveri. E se si invocano con forza i primi non ci si può dimenticare che nella variegata composizione della nostra società il diritto degli uni a mettere in atto un’azione, o ad astenersi dalla stessa, non si può scontrare con quello degli altri a beneficiarne. Soprattutto perché ci sono anche puntuali doveri, dei quali ci si dimentica con grande faciloneria. La maldestra e arrogante comunicazione ha avuto l’effetto di rendere intollerante ciò che tacitamente si tollerava. Si trattava di gestire con equilibrio scevro dall’ideologia qualcosa che non dovrebbe mai scappare di mano, pena l’esasperazione. Un sentimento che non è mai foriero di positività.