I paradossi (a)sociali della realtà iperconnessa

Si può anche far finta di niente, per carità. Ci si può anche autoconvincere che i tempi cambiano e che in fondo si tratta soltanto di un normale cambio di destinazione e fruizione di uno strumento di uso comune che non si poteva prevedere. Certo è facile scivolare nel grottesco andando per analogie, come nel caso degli intraprendenti protagonisti medievali del buffo film francese I visitatori che, magicamente proiettati nella modernità, scambiavano la tazza del water per una zampillante sorgente di acqua fresca o come il padre di famiglia di uno spot televisivo molto in voga che, pur di non spendere troppo di assicurazione, preferisce trasformare il motore dell’auto di famiglia in un barbecue per le classiche grigliate in giardino. Eppure, la constatazione che, almeno per gran parte dei giovani, il telefono non serve più a telefonare ha delle implicazioni molto più serie che usare la vecchia carriola del nonno come inedita fioriera in stile neorurale o piantarci in modo originale il basilico, la salvia e la malva. I segnali c’erano tutti e chi ha un minimo di spirito d’osservazione se n’era già accorto da tempo ma qualche giorno fa un sondaggio del londinese «Times» ha confermato con cifre inoppugnabili che nell’epoca dell’ipercomunicazione le persone, e i più giovani in particolare, semplicemente «non rispondono più alle chiamate». Anzi, precisano i numeri, nella fascia d’età compresa tra i 18 e i 34 anni un intervistato su quattro ha dichiarato di non aver mai risposto al telefono in vita sua.
Nella maggior parte dei casi, gli utenti hanno spiegato di lasciare semplicemente squillare la suoneria, ignorando sempre le chiamate di ignoti, cercando poi il numero sul web, oppure rispondendo in casi limite ad amici e parenti con un messaggio di testo. Una sorta di fobia del telefono nel suo uso tradizionale, ammessa dal 31% dei giovani sotto i 35 anni che ha dichiarato esplicitamente di temere il contatto anche solo vocale con altri esseri umani. E proprio qui sta il punto allarmante, soprattutto pensando alle generazioni di domani: i giovani utilizzano lo smartphone per chattare, condividere video, immagini o contenuti di carattere sessuale e mille altre attività di ogni genere. Ma sono tutte forme indirette e alternative di comunicazione che evitano il dialogo, che invece promuove il confronto e favorisce lo sviluppo della capacità di adeguarsi all’interlocutore, di relazionarsi con l’altro, di negoziare una qualsivoglia forma di socialità. Il trionfo dell’ultraconnessione, della condivisione assoluta, della comunicazione forzata e sempiterna sta paradossalmente producendo persone piene di fobie e incapaci di affrontare la minima forma di relazione che implichi un contatto anche solo verbale o un minimo legame fisico che sia anche un semplice sguardo. Una vera trasformazione antropologica, dunque, molto meno innocua di quello che si potrebbe credere immaginando un banale o curioso cambiamento d’uso di uno strumento che ancora si chiama telefono ma che per telefonare non serve ormai più. Con la conseguenza, già evidente, di una disarmante perdita delle competenze relazionali minime in una società civile che rende difficile per molti, non sempre e non soltanto giovani, tutta una serie di codici e di attività normalissime che credevano acquisite per sempre: salutare qualcuno, magari più anziano, comportarsi adeguatamente in un luogo o in un esercizio pubblico, conversare con altre persone in modo urbano, relazionarsi con un’autorità, con un docente, con una persona appena conosciuta e potremmo continuare a lungo. La maleducazione dilagante è forse figlia della ineducazione di una società di asociali costruita su WhatsApp? Vien quasi da rimpiangere quei bei mischioni laocoontici che si scatenavano nelle case ante-smartphone (specie in presenza di qualche adolescente) quando squillava perentorio l’unico telefono fisso… «Vado io!!!».