I valori e la nobiltà dell’Iran di domani

A colpire sono le loro belle facce. Sono giovani, e sono belli proprio come solo i giovani possono esserlo. L’aria di chi avrebbe voluto vivere la vita - come scriveva Thoreau in un suo noto verso - succhiandone tutto il midollo. Sono finiti impiccati. O stanno aspettando che arrivi il loro momento.
«Punire con durezza e arrestare chi non rispetta la legge». La legge sull’hijab obbligatorio in pubblico. Lo ha ribadito ancora negli scorsi giorni il viceprocuratore Khorramabadi. Punire significa, per le donne dell’Iran, carcere per più anni, esilio, espulsione. Nessuna intenzione, quindi, da parte delle autorità, di abolire la polizia morale o di fare passi indietro. Anzi, l’Iran punisce, massacra. Sta provando a zittire, e quindi ad annientare, la propria gioventù. Dall’inizio delle proteste, provocate dall’uccisione della giovane Mahsa Amini quattro mesi fa, sarebbero morte oltre cinquecento persone, quasi ventimila i manifestanti arrestati. Quattro ragazzi sono stati giustiziati. E secondo l’ONG Iran Human Rights, a rischiare la pena capitale sarebbero molti di più, più di cento. In gran parte si tratta di giovani tra i venti e i trent’anni, alcuni - tanti - sono ancora più giovani. Li ammazzeranno tutti? L’Iran conservatore si sente all’angolo, debole, e allora picchia più forte: o davvero li ammazzerà tutti oppure la rivoluzione andrà fino in fondo. Perché neppure le impiccagioni stanno agendo da spauracchio. I giovani tornano sempre in piazza. Come ha sottolineato la scrittrice iraniana Azar Nafisi, «le persone non hanno più paura, è il regime che ha paura di loro».
Una generazione senza paura, mediamente ben istruita, abituata alle nuove tecnologie e presente - attiva - sui social. Parliamo di ragazze e ragazzi che vedono e seguono anche il mondo fuori dall’Iran, consapevoli della possibilità di autodeterminarsi, del significato della parola libertà. Sono pure consapevoli, quindi, di ciò che è loro negato. Non è un caso se, in questi quattro mesi, tra loro non sono emerse particolari figure guida. Non parliamo qui di posizioni e opposizioni politiche, di ideologie, ma di libertà di scelta e di espressione. L’autodeterminazione in Iran non è una questione di puntini sulle «i», di definizioni, di politicamente corretto, ma è l’obiettivo oltre l’impedimento, è un traguardo negato, è qualcosa che, anche grazie ai social, i giovani conoscono e che, proprio per questo, si trasforma in frustrazione, quando non in umiliazione. Quando non in morte.
Sì, perché mentre i giovani chiedono di autodeterminare il proprio futuro, le autorità impediscono loro persino di difendersi in tribunale. Processi che diventano pantomime funzionali alla repressione, alla repressione di qualcosa che non si capisce. L’Iran di Khamenei sembra non capire fino in fondo cosa stia spingendo l’Iran dei giovani a reagire in questo modo, rivendicando diritti nuovi, bollati come «occidentalizzazione». Non a caso l’ayatollah ancora questa settimana attribuiva colpe allo straniero, americani ed europei. «La loro impronta è ovvia e non può essere ignorata». E giù botte, giustificate con l’ignoranza, con la paura, per tornare alle parole di Nafisi.
E intanto nelle piazze e lungo le strade dell’Iran sfilano con sempre maggior coraggio - ma neppure possiamo intuire il peso dell’idea di morte nascosta nel loro cuore, sotto quello strato di nobiltà - ragazze e ragazzi. Giovani uomini che sfilano rivendicando libertà anche a nome delle loro coetanee, vessate e costrette. Nelle orecchie musica rap, note e richiami di libertà. L’obiettivo dell’Iran che manifesta non è un ideale statico e conservatore, ma piuttosto l’idea di un futuro in divenire, qualcosa che ancora non si conosce fino in fondo. È l’essenza di ciò che ancora non c’è. È vita.