L'editoriale

Il paradosso delle banche troppo grandi per fallire

Il Consiglio federale propone di inasprire le norme sul capitale degli istituti bancari ritenuti di rilevanza sistemica - Chiesto più capitale a UBS, maggiori poteri alla Finma e la possibilità di recuperare i bonus illecitamente percepiti
Generoso Chiaradonna
07.06.2025 06:00

Nel lessico della finanza globale, poche espressioni evocano tanto timore quanto “too big to fail”. È il paradosso per cui alcune istituzioni finanziarie, per la loro mole e pervasività, diventano talmente centrali da non potersi permettere il lusso di fallire. O almeno, potrebbero sì fallire, ma dovrebbero farlo in modo ordinato senza portarsi con loro buona parte dell’economia. 

La crisi del 2008 ha scolpito nella memoria collettiva il nome di Lehman Brothers quale modello negativo. La sua implosione scatenò un terremoto finanziario che rese evidente ciò che molti già sussurravano nei corridoi dei regolatori: alcune banche erano diventate così grandi e interconnesse da minacciare l'intera architettura economica globale. È da quel momento che le autorità finanziarie internazionali hanno cominciato a plasmare una risposta regolatoria: la normativa “too big to fail” (TBTF), appunto. L’obiettivo era tanto ambizioso quanto necessario: impedire che il fallimento di una singola banca si traducesse in un conto salato per i contribuenti. E per farlo, la normativa nelle sue linee generali è articolata su più fronti. Innanzitutto, impone alle cosiddette SIFI – le “Systemically Important Financial Institutions” – requisiti patrimoniali e di liquidità più severi. Non basta sopravvivere: bisogna essere in grado di assorbire urti, evitare effetti domino, contenere il rischio sistemico. 

In secondo luogo, le banche sistemiche sono obbligate a presentare un vero e proprio piano di risoluzione – il famoso “fallimento ordinato” – che indichi, nero su bianco, come potrebbero essere smantellate in caso di crisi. Un testamento finanziario di fatto, ma scritto quando ancora si è in salute. È la risposta alla logica perversa del "troppo grande per fallire", che nel passato ha giustificato in Europa e negli Stati Uniti salvataggi miliardari con denaro pubblico. Laddove possibile, la normativa prevede anche la separazione delle attività speculative da quelle essenziali, così da proteggere i risparmi dei cittadini e i depositi delle imprese da operazioni ad alto rischio. E nei casi più estremi, dovrebbe entrare in gioco il bail-in: l’auto salvataggio. A differenza del passato, in quegli anni si era deciso che dovevano essere, nell’ordine, azionisti, obbligazionisti e correntisti oltre un determinato importo (in Svizzera i primi centomila franchi sono protetti) a sopportare le perdite, non più lo Stato. 

La Svizzera, paese profondamente intrecciato con il sistema bancario internazionale, adottò allora una delle normative TBTF più rigorose d’Europa. Dopo il controverso salvataggio pubblico di UBS nel 2008, Berna disegnò un impianto legislativo con l’obiettivo di garantire che i contribuenti non fossero chiamati a tappare le falle del settore finanziario. Le banche identificate come sistemiche – tra cui UBS (che ha assorbito Credit Suisse nel 2023), la Banca cantonale di Zurigo, PostFinance e Raiffeisen – sono da allora soggette a requisiti patrimoniali rafforzati, vincoli di liquidità, nonché all’obbligo di presentare piani di emergenza e strategie di risoluzione ordinate. E magari con la possibilità di chiedere conto finanziariamente (bonus illegalmente percepiti) a chi materialmente le dirige. Nel caso Credit Suisse, per esempio, non è stato aperto nemmeno un procedimento penale. Inoltre, regole rafforzate e requisiti di capitale più elevati per almeno una di queste entità: UBS e le sue partecipate estere. Il punto cardine resta la possibilità, per l’autorità di vigilanza Finma, di intervenire tempestivamente in caso di crisi: ristrutturare la banca, isolare le attività critiche, attivare il bail-in coinvolgendo azionisti e obbligazionisti. La regola è chiara: la stabilità del sistema viene prima del salvataggio del singolo operatore. 

Eppure, anche il sistema elvetico ha mostrato crepe. Il crollo di fiducia in Credit Suisse nel marzo 2023, sfociato in un’acquisizione forzata da parte di UBS con garanzie pubbliche, ha scosso la fiducia nelle capacità preventive della normativa. Di fatto la normativa svizzera sul “too big to fail’ quando si è presentata l’occasione non è stata utilizzata. È stato un vero e proprio segnale d’allarme che ha riaperto il dibattito e portato il Consiglio federale a proporre una riforma della legislazione per stringere ulteriormente le regole e cercare di evitare di ritrovarsi in futuro davanti a una riedizione del caso Credit Suisse. La domanda di fondo è la seguente: davvero è possibile smantellare una banca globale senza innescare una reazione a catena? Oppure, nonostante tutto, ci sono ancora istituzioni troppo grandi per fallire – e persino troppo grandi per essere salvate senza effetti collaterali? 

In un mondo in cui la finanza corre più veloce delle regole, il principio di precauzione dovrebbe essere la prima regola. Perché la vera posta in gioco non è solo la sopravvivenza di una banca, ma la fiducia collettiva in un sistema che pretende di essere ordinato anche nel disordine. 

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