Il vero conflitto di fondo sulla LPP

Per la terza volta in quattordici anni, il 22 settembre si voterà su una riforma del secondo pilastro che ha come perno la riduzione dell’aliquota di conversione della parte obbligatoria. Questa misura non tocca chi è in pensione e la grande maggioranza degli assicurati, perché quest’ultima dispone di una previdenza professionale che va al di là del minimo di legge: in questo caso, le casse praticano già aliquote miste fra parte obbligatoria e sovraobbligatoria. I due precedenti tentativi di adeguare il tasso che converte il capitale in rendita, portandolo dal 6,8% al 6%, sono falliti alle urne: nel 2010, quando non erano previste compensazioni; e nel 2017, quando la misura era inserita in una riforma più ampia del sistema pensionistico, che comprendeva AVS e previdenza professionale. Stando ai sondaggi, anche il nuovo tentativo potrebbe naufragare.
La materia è ostica e le divisioni all’interno del mondo politico ed economico (ci sono settori che non vogliono aumentare il costo del lavoro tramite maggiori contributi pensionistici) non ne facilitano la comprensione. Le ragioni alla base della riduzione dell’aliquota di conversione sono sostanzialmente le stesse: l’aumento della speranza di vita e la riduzione dei tassi di interesse. Lo scopo è anche di porre fine ai travasi di fondi dagli assicurati ai pensionati; travasi che interessano le casse pensioni meno attrezzate. Ma il pacchetto in votazione è più articolato dei precedenti. Accanto un sistema di compensazioni transitorie (a dir poco controverso) prevede cambiamenti che facilitano l’accesso al secondo pilastro e rafforzano il risparmio individuale in vista della vecchiaia. L’adeguamento della deduzione di coordinamento aumenterà la parte di salario assicurato, mentre la riduzione della soglia d’ingresso darà la possibilità a decine di migliaia di lavoratori part-time e con retribuzioni basse di accedere alla previdenza professionale. Ad approfittare di questi cambiamenti saranno soprattutto le donne, anche quelle che oggi svolgendo più lavori non raggiungono la soglia minima per contribuire. Secondo uno studio della società specializzata BSS, la riforma favorirà 359 mila persone, di cui appunto 275 mila donne, che un domani potranno andare in pensione con una rendita migliore (in cambio, ben inteso, di maggiori prelievi sui salari). Inoltre, la nuova graduazione degli accrediti di vecchiaia migliorerà la posizione degli ultracinquantenni sul mercato del lavoro.
Ma c’è anche un rovescio della medaglia. Le compensazioni previste sull’arco di 15 anni per la generazione di transizione sono attaccate da più parti. La sinistra le ritiene complessivamente insufficienti e dice che si pagherà di più per ricevere meno, mentre all’opposto c’è chi parla di ingiuste (e costose) sovracompensazioni, destinate anche a chi non risentirebbe della riduzione dell’aliquota di conversione. Viceversa, a dipendenza del salario e dell’età, ci saranno certi assicurati che nonostante il supplemento dovranno aspettarsi rendite più basse, anche perché rispetto a oggi verseranno meno contributi e andranno in pensione con un capitale inferiore. Mentre per altri, la riduzione della rendita dovuta all’abbassamento dell’aliquota di conversione sarà superiore all’aumento della rendita derivante dalle misure compensative. Sarebbero penalizzati, in particolare, i redditi compresi fra i 70.000 e gli 88.000 franchi. Secondo lo stesso studio della BSS, la riforma sfavorirà 169 mila assicurati (102 mila uomini e 67 mila donne). Va anche detto che in questo contesto complicato l’opposizione di sinistra ha avuto buon gioco nel creare incertezza, esagerare le conseguenze negative e mettere in cattiva luce il sistema del secondo pilastro.
Un sì alle urne permetterebbe di introdurre una serie di miglioramenti per i lavoratori e porrebbe le premesse per risolvere – ci vorrebbero comunque anni – il problema dei travasi di fondi fra assicurati e pensionati nelle casse interessate (una minoranza). Un no, il terzo consecutivo, lascerebbe le cose come stanno, compresa un’aliquota di conversione che non corrisponde più alla realtà. Ma soprattutto rinvierebbe a chissà quando una nuova riforma. È sempre facile mettere sul tavolo idee allettanti, valide solo sulla carta; difficilissimo, invece, come dimostra il dossier parallelo dell’AVS, trovare una maggioranza attorno a soluzioni praticabili per il finanziamento della previdenza, confrontata con seri problemi strutturali. A maggior ragione quando esiste un conflitto di fondo, che appare vieppiù insanabile, fra chi difende la bontà del sistema a tre pilastri e chi, come i sindacati e la sinistra, punta ad ampliare il primo e a indebolire il secondo, con obiettivo ultimo un sistema unico redistributivo sul modello AVS.