L'editoriale

Il vescovo non diventi un affare di Stato

La richiesta di una modifica della convenzione del 1968 sulla diocesi di Lugano dovrebbe partire dalla Santa Sede, che ne ricaverebbe il vantaggio di essere più autonoma nel nominare chi vuole e dove vuole
Paride Pelli
15.06.2023 06:00

Non si capisce per quale oscuro motivo stia facendo discutere la «decisione di non decidere» presa dal Consiglio di Stato riguardo alla nomina del vescovo di Lugano. A noi sembra che la posizione assunta dal Governo non solo sia trasparente e rispettosa di tutte le parti coinvolte, ma anche tanto naturale da risultare perfino scontata. Sul tavolo c’era (c’è) una piccola ma invalicabile norma siglata tra il Consiglio federale e la Santa Sede nel 1968, in cui si stabilisce che il vescovo titolare della diocesi della Svizzera italiana deve essere, testualmente, «scelto tra i sacerdoti ticinesi». Dopo le dimissioni di Valerio Lazzeri - che a seguito di un «lungo discernimento» ha rimesso il mandato nelle mani di Papa Francesco nell’ottobre dell’anno scorso - e dopo l’arrivo a Lugano di monsignor Alain de Raemy quale amministratore apostolico ad interim, oltre 2.300 fedeli della diocesi hanno firmato un appello per modificare il passaggio della convenzione, ratificata quasi 55 anni or sono, riguardante tale regola così stringente. L’obiettivo della petizione - ça va sans dire - era quello di schiudere la possibilità di nominare al ruolo di vescovo della diocesi luganese anche candidati non strettamente originari del Ticino. Certamente a iniziare da monsignor De Raemy, che ha subito guadagnato l’affetto e la stima dei fedeli pur essendo nato a Barcellona e avendo operato per gran parte della sua vita nella Svizzera francese, ma senza escludere chiunque altro abbia il curriculum adatto e dimostri di avere lo spirito e la personalità per ricoprire la carica.

L’appello è rimbalzato direttamente sul Governo ticinese, dal momento che i rapporti tra Chiesa e Stato competono ai Cantoni e soltanto dopo una decisione cantonale la Confederazione può fare i passi successivi per ridiscutere con la Santa Sede uno o più aspetti degli accordi reciprocamente siglati. Non era però difficile prevedere la risposta che avrebbe dato il Governo, che si è limitato a ribadire la propria totale laicità e la competenza esclusiva della Chiesa nell’organizzare, in piena libertà, la propria struttura e il proprio personale, fatto salvo il basilare rispetto della forma democratica elvetica e della Costituzione. Alcuni hanno interpretato questa pacata presa di posizione come una «non decisione». In realtà sembra una scelta quasi obbligata, rispettosa tra l’altro della sacrosanta separazione tra Stato e Chiesa che dovrebbe attuarsi in tutti i Paesi liberali.

Inutile nascondersi che l’intera vicenda racchiude un pacchetto di problematiche non solo giuridiche che in futuro andranno sanate. Un certo numero di cittadini ticinesi ha sollevato una richiesta che, attraverso il Consiglio di Stato del loro cantone, sarebbe poi dovuta risalire a Berna e da lì scendere in Vaticano. Il sentimento di questi cittadini, fondato o meno che sia, è che tale richiesta sia rimasta inevasa. La riflessione finale è che - forse - il «peccato originale» dei firmatari sia stato quello di imboccare la via dello Stato, il quale, nella nostra epoca, ha la tendenza a essere il più laico possibile e, soprattutto in Svizzera, a non immischiarsi troppo nelle complesse e delicate dinamiche religiose. Che la Chiesa cattolica abbia una vocazione universalistica e che anche in Ticino essa debba avere la possibilità di nominare un vescovo non originario del nostro cantone, ci pare un obiettivo lodevole. Ma non è forse questo un problema del tutto interno alla Chiesa? Detto in altre parole, la richiesta di una modifica della convenzione sulla diocesi di Lugano dovrebbe partire dalla Santa Sede, che ne ricaverebbe il vantaggio di essere più autonoma nel nominare chi vuole e dove vuole. Ancora più chiaramente, e si perdoni la battuta: non vorremmo che la nomina del prossimo vescovo di Lugano diventasse un affare di Stato.

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