Inclusività e normalità: l'esempio di Parigi
Negli ultimi giorni si può toccare con mano, in tutti i contesti sociali, l’entusiasmo che stanno suscitando i Giochi paralimpici in corso a Parigi e dintorni. D’altronde, non poteva che destare ammirazione – e commozione – l’incredibile spettacolo di atleti disabili che accumulano, gara dopo gara, record e vittorie di cui andrebbe fiero chiunque. Le Paralimpiadi termineranno domenica prossima: chi non le avesse ancora intercettate in tivù, lo faccia, le dirette non sono molte ma così si può partecipare da lontano a imprese che restano impresse nella memoria. Solo per segnalarne un paio, pochi giorni fa l’arciere indiana Sheetal Devim, 17 anni, ha stabilito il record mondiale nella prova individuale di tiro con l’arco. E lo ha fatto utilizzando una tecnica unica, lei, nata senza braccia: e non importa se poi è stata eliminata per un solo punto agli ottavi. Le paralimpiadi non fanno certo sconti a nessuno, ma intanto il record era infranto e lei è stata «la prima». Impresa da brividi – tra le altre – anche quella condotta nel lancio del disco dall’azzurro Rigivan Ganeshamoorthy, che in carrozzina, al quinto tentativo, con una spallata formidabile, ha lanciato l’attrezzo a 27,06 metri. Terzo record del mondo consecutivo nella stessa gara e, naturalmente, medaglia d’oro. Per chiudere, oggi l’atleta Ana Maria Vitelaru – che ha perso le gambe sotto un treno – scenderà in gara con la handbike regalatale da Alex Zanardi. Già, Zanardi: ex pilota di F1 e di Formula CART, entrambe le gambe amputate dopo un terribile incidente in pista, ma con un successivo medagliere, a Londra nel 2012 e a Rio nel 2016, che desta impressione e che testimonia di una straordinaria forza di volontà. A questo giro lui non corre, ma il suo esempio è tra quelli senza tempo, un grande stimolo per tutti gli sportivi disabili che non intendono demordere e per chiunque di noi, dopo una difficoltà, voglia rialzare la testa.
A tale spettacolo di tenacia e di resistenza, spiace constatare che i media non stiano dedicando lo spazio adeguato. Eppure, conoscere da vicino questo mondo servirebbe a tutti: a chi, pure tra i normodotati, deve far fronte a ostacoli imprevisti e a dure prove, e a chi, in buonafede, tende talvolta a idealizzare un po’ troppo il mondo paralimpico. Che non è certo esente da aspetti «troppo umani»: in questa edizione, ad esempio, alcuni atleti sono stati pizzicati con le mani nel doping e sospesi. Anche questo sta nell’ordine - o nel disordine - delle cose. Come invece ha stupito in positivo la «genuinità» e l’auto-ironia del già citato Ganeshamoorthy, affetto da sindrome di Guillain-Barré, una polineuropatia infiammatoria acuta. Un giornalista gli ha chiesto se il mondo paralimpico stesse iniziando a piacergli di più, e lui, candido e sorridente, in barba a ogni politicamente corretto: «Sì, ma qui ci sono un po’ troppi disabili…». Un’uscita allegra, che mette in luce il vero spirito delle Paralimpiadi: l’inclusività vissuta bene, persino con leggerezza, sia da parte di chi ha tutto il diritto di essere incluso, pur nella sua disabilità, sia da parte di chi questa inclusione la deve assicurare, per ovvie ragioni di umanità e di civiltà. Un’operazione che per riuscire ha bisogno sia del piacere della competizione, in questo caso sportiva, sia di un ambiente il più possibile sereno. A titolo di paragone, questa volta in negativo, si pensi ai Giochi olimpici che si sono tenuti sempre a Parigi un mese prima. Accompagnati da un fiume di polemiche ideologiche e di discussioni (sulla cerimonia di apertura, sull’organizzazione dell’evento, sulla salubrità dell’acqua della Senna, ecc.), essi non hanno certo lasciato un buon ricordo, al netto delle medaglie conquistate da ogni Paese. Più che Olimpiadi, sono sembrate il prolungamento mediatico di una guerra, e di guerre oggi ne abbiamo fin troppe. Negli ultimi giorni le Paralimpiadi ci stanno raccontando, invece, una «normalità» di cui dovremmo fare tesoro, ça va sans dire.