Intelligenze smarrite e paure artificiali

Stavolta hanno voluto essere particolarmente tempestivi. Stufi di essere presi in giro per alcune discutibili scelte normative del passato, gli europarlamentari di Strasburgo hanno messo le mani avanti garantendo a tutti i cittadini dell’Unione la prima norma al mondo sull’intelligenza artificiale. Risultando persino ammirevoli, per carità, vista l’urgenza un po’ isterica che le nuove tecnologie imperanti stanno generando in chiunque si senta investito di qualsivoglia forma di responsabilità, anche se rimane lecito chiedersi se abbia davvero senso legiferare intorno a qualcosa di «intelligente».
È un po’ come se nel V secolo avanti Cristo i cinquecento deputati della Bulè ateniese si fossero detti: «Ragazzi, questa moda della filosofia ci sta prendendo troppo la mano. Potrebbero scaturirne diatribe epocali, scuole di pensiero, visioni del mondo, civiltà insomma. Ma anche guerre, ideologie e conflitti per chissà quanti secoli. Meglio cautelarsi con una bella legge che tenga a bada la faccenda; ci eviterà tanti guai in futuro e pazienza per la libertà di pensiero». Ironie a parte, forse il primo passo da compiere in tutto questo delirante e confuso sproloquiare di intelligenza artificiale sarebbe proprio di smetterla di svilire la parola «intelligenza» abusandone di continuo, quando invece dovremmo averne il sacro rispetto con cui si onora una qualità sempre più rara e preziosa. D’altronde la stridente espressione, che sta saturando la nostra società e le nostre anime, fu coniata, in modo volutamente ammiccante e ambiguo, negli anni Cinquanta per ragioni di marketing da un gruppo di scienziati che avevano bisogno di finanziamenti per le loro ricerche informatiche e ancora non si capisce, se non in ossequio ad una non richiesta sudditanza alla potenza algoritmica, perché, per questa ossessione del nostro tempo, ancora non si sia trovata una definizione più neutra e chiarificatrice.
Eviteremmo almeno di continuare a confondere, vuoi ingenuamente vuoi in malafede, la tecnologia, per quanto mirabolante e onnipotente, con le emozioni, la coscienza e i sentimenti che nessuna macchina potrà mai possedere. Anche perché fingiamo di dimenticare (o qualcuno ci induce a farlo) che la tecnologia anche nei suoi ultimi rivoluzionari sviluppi è prodotto esclusivamente umano, di una persona con un nome e un cognome preciso e quasi sempre un marchio da far prosperare. Così invece di immaginare fantomatiche entità aliene che tramano nell’ombra per sostituirsi alla nostra balbettante e atrofica intelligenza, potremo renderci conto che abbiamo la fortuna di vivere in un’epoca in cui la tecnologia può migliorare le nostre vite in tantissimi modi purché la si sappia usare, quando serve davvero, in modo etico, responsabile, sensibile e regolato da norme che mirano al bene comune. Ricordandoci che trattandosi di faccenda umana sarà sempre reversibile e che spesso sarà più utile e conveniente «non» usarla. Tutto il resto non sarà intelligenza, ma soltanto insicurezza, pigrizia, paura, superficialità e una densa cortina fumogena per coprire colossali interessi economici di pochi a scapito della collettività planetaria. Altrimenti, e la colpa sarà stata soltanto nostra, lasceremo avverare la raggelante profezia descritta nel 1954 dallo scrittore di fantascienza Fredric Brown nel fulminante racconto La risposta (The Answer). Facendo la tragica fine del protagonista; lo scienziato programmatore che al momento di collegare tutti i computer del mondo in un’unica unità cibernetica straordinariamente potente e onnisciente in grado di rispondere a qualsiasi domanda, ha l’onore di porre il primo quesito: «Esiste Dio?» chiede il malcapitato, «Adesso sì» risponde la macchina, un istante prima di incenerirlo bloccando per sempre il quadro dei comandi.