La cultura del bonus è vecchia, va innovata

Il disastro Credit Suisse ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il tema dei bonus, ovvero della parte variabile degli stipendi di alti dirigenti, quadri superiori e impiegati delle grandi società quotate. Il Consiglio federale una decina di giorni fa proprio nell’ambito del salvataggio della grande banca ha addirittura ordinato di bloccare le retribuzioni variabili non ancora versate ai tre massimi livelli gerarchici di Credit Suisse, oppure di ridurle del 50 o del 25 per cento. Un modo, quest’ultimo, per tenere conto anche dei diversi gradi di responsabilità operativa in seno alla banca. Pochi giorni prima dall’ordine del giorno dell’ultima assemblea degli azionisti del Credit Suisse era sparito il punto sul pagamento di un bonus supplementare di 30 milioni di franchi ai membri della direzione in caso di successo del piano di ristrutturazione annunciato lo scorso autunno. In entrambi i casi si tratta di un gesto più che altro simbolico e di buon senso che non incide sulle sorti della banca. Ha lanciato però il dibattito sulla sostenibilità e soprattutto sulla liceità di bonus fuori scala rispetto alla responsabilità penale e civile dei manager e ai risultati obiettivamente misurabili. Alla fine del 2006 – prima dello scoppio della crisi finanziaria internazionale – in Svizzera, patria della democrazia semidiretta, iniziò la raccolta delle firme per lanciare un’iniziativa popolare tesa a introdurre nella Costituzione federale il divieto di retribuzioni abusive. In pratica il comitato d’iniziativa guidato dall’imprenditore sciaffusano Thomas Minder, poi eletto consigliere agli Stati e di certo non un pericoloso sovversivo, proponeva di ridare centralità agli azionisti, i veri ‘padroni’ delle società quotate, in materia di remunerazioni dei vertici. E questo, secondo l’incipit profetico della norma poi accettata dieci anni fa dall’unanimità dei cantoni e dalla larga maggioranza degli elettori (68 a 32), «Per tutelare l’economia, la proprietà privata e gli azionisti e per garantire una conduzione sostenibile delle imprese». Oggi, a distanza da dieci anni, riecheggiano le stesse discussioni che precedettero il voto di quella iniziativa con la differenza che questa volta l’opinione pubblica sta chiedendo norme ancora più severe in materia di bonus. La giustificazione che va per la maggiore e sposata da Marcel Rohner, presidente dell’Associazione svizzera dei banchieri, secondo cui senza mani libere in materia di remunerazioni l’industria finanziaria non attirerebbe più talenti dall’estero è fallace. Per prima cosa la pratica di incentivare il management di alto o medio livello è vecchia e superata dagli eventi e da industrie più innovative. È nata quasi settanta anni fa, nel 1954, proposta dall’economista austriaco Peter Drucker. Nota come la teoria del management by objectives (MBO), poggia la sua forza sul fatto di coinvolgere i dipendenti nella definizione di «obiettivi specifici, misurabili, raggiungibili, rilevanti e tempestivi». Il problema è che con gli anni il portato distruttivo – nel senso positivo e di innovazione di questo sistema - è stato distorto. L’obiettivo di un responsabile di qualunque elemento di un’organizzazione complessa come può essere quella di una grande azienda negli anni è diventato il bonus in sé. Il fine ultimo non è il benessere dell’azionista o degli stakeholder, ma la remunerazione extra raggiunta senza badare troppo ai rischi assunti in nome e per conto dell’azienda che però pesano su altri: dipendenti, azionisti in primis e in definitiva sulla collettività. In questi anni altri modelli salariali si stanno imponendo, molto più sostenibili. È il caso di Netflix. Reed Hastings, il co-fondatore ed ex CEO della piattaforma di streaming che ha rivoluzionato l’industria audiovisiva, sostiene a ragione che l’innovazione ha bisogno di persone competenti e in grado di reagire ai cambiamenti in maniera rapida. E per fare ciò servono alti salari e stabilità, non bonus variabili pagati in base a obiettivi, difficilmente misurabili, stabiliti anni prima.