La democrazia locale tra retorica e realtà

Nei Comuni i partiti hanno ancora qualche giorno per mettere a punto le liste in vista del rinnovo dei poteri locali del 14 aprile. Lunedì prossimo scadrà il termine per la presentazione delle candidature che diventeranno definitive il 5 febbraio. Tre anni fa, posticipate di un anno le elezioni del 2020 a seguito del Coronavirus con decisione governativa quando già era in corso il voto per corrispondenza, la campagna fu anomala, condizionata ancora dalle restrizioni per contrastare la pandemia e in un clima sospeso e stanco poco favorevole a grandi sussulti politici. Questa volta si torna alla piena normalità, dopo una legislatura breve ma anche intensa, segnata dall’improvvisa morte del sindaco di Lugano Marco Borradori a cui è subentrato Michele Foletti. È del resto in riva al Ceresio – anche se partenze eccellenti (come a Locarno) e situazioni di possibili cambiamenti ve ne sono diverse – che il 14 aprile si giocherà la partita più interessante di queste elezioni, in particolare con l’entrata in scena dell’«avantista» Amalia Mirante, che pesca voti non solo nel PS indebolito, e molto probabilmente del presidente nazionale dimissionario dell’UDC Marco Chiesa che, al di là delle rassicurazioni di fedeltà ai patti, potrebbe cambiare gli equilibri dell’alleanza con la Lega. Nel rinnovo dei poteri locali più dei partiti sono comunque le qualità personali dei candidati a fare la differenza perché nel livello istituzionale più vicino al cittadino c’è un contatto più diretto tra amministratori e amministrati e la cosiddetta politica di prossimità si fonda non su filosofie ideologiche astratte ma su scelte concrete che toccano direttamente la quotidianità delle persone, la qualità della vita. Cinquanta metri di marciapiede contano più di cinquanta pagine di programma politico.
Ma quanto resiste ancora nella realtà questa politica di prossimità e quanto è invece mitizzata dalla retorica sulla sussidiarietà e sul rilancio della democrazia locale di fronte al groviglio condizionante dei rapporti con l’ente istituzionale superiore? Una risposta avrebbe dovuto venire dalla riforma Ticino 2020, voluta con l’obiettivo di tentare nuovamente di mettere ordine nel ginepraio di competenze e flussi finanziari tra Cantone e Comuni, che tuttavia, dopo otto anni di lavori, si è rivelata un flop, senza risolvere alcuni nodi centrali dei contributi perequativi, vittima anche delle smisurate ambizioni iniziali e simile, nell’epilogo prevedibile, all’altra famigerata incompiuta per molti aspetti collegata: la revisione dei compiti dello Stato.
Il rinnovo dei poteri comunali giunge in un momento per nulla idilliaco nei rapporti tra Cantone e Comuni: al fallimento di Ticino 2020, su cui ha messo la pietra tombale la stroncatura congiunta degli Esecutivi dei centri urbani, si aggiunge la riforma fiscale votata dal Gran Consiglio con l’irritazione degli enti locali per l’aggravio finanziario a loro carico. Sullo sfondo c’è il micidiale marasma politico cantonale sul Preventivo 2024 e sulle misure di contenimento della spesa. Quel che si annuncia nelle piazze e che poi arriverà a più di un voto popolare toccherà anche i Comuni. Gli amministratori locali eletti il 14 aprile non avranno un compito facile. Soprattutto chi guiderà le realtà urbane dovrà agire con determinazione e unità, consapevoli attori di una Città Ticino che da concetto anche un po’ fumoso sta diventando la struttura portante del cambiamento socioeconomico. Nella prossima legislatura comunale le importanti ambizioni di sviluppo di Lugano e Bellinzona, o il progetto aggregativo del Basso Mendrisiotto (che sarebbe auspicabile facesse scuola anche fra i campanili del Locarnese), saranno una spinta per l’intero territorio. La forza contrattuale verso il Cantone si misurerà anche su questo campo.