La pace a parole, la guerra nei fatti

La discesa in guerra degli Stati Uniti a fianco di Israele contro l’Iran è il segnale definitivo – se ce ne fosse stato bisogno – che un’intera epoca della diplomazia e del diritto internazionale è ormai finita. Se non per sempre, di sicuro per i prossimi lunghi anni a venire. Anche in Europa. I fatti in poche righe: nella notte di domenica gli USA hanno colpito tre siti atomici iraniani, unendosi nel concreto all’attacco dello Stato ebraico iniziato il 13 giugno scorso. Per il Pentagono, «il programma nucleare iraniano è stato devastato», per altri analisti militari i colpi inferti a Teheran sono solo un pesantissimo «avvertimento» e non l’inizio di una guerra a tutto campo, dal momento che la strada dei negoziati sarebbe ancora percorribile, e Washington non starebbe cercando, quantomeno a detta del vicepresidente JD Vance, nessun «regime change» in Iran. Difficile credere a questa seconda ipotesi, se non come vana speranza diplomatica, poiché l’Iran è stato colpito duramente non solo sul terreno ma anche e soprattutto nella propria immagine politica interna e internazionale e ha già promesso «conseguenze eterne». Si sta andando di corsa, salvo miracoli, verso un conflitto ancora più sanguinoso. Le variabili sono troppo numerose, prevedere come si svilupperà nelle prossime settimane la situazione bellica in Medio Oriente è come minimo un azzardo. Ma una riflessione su come si è arrivati a questo gravissimo punto è già possibile. E purtroppo, come dicevamo all’inizio, non è una bella riflessione.
Come esempio di partenza che vale anche per altre guerre in corso, possiamo portare senza dubbio la strategia militare di Donald Trump. Pochi giorni fa l’attuale commander-in-chief d’America aveva dichiarato di voler prendere tempo, almeno due settimane, prima di decidere come porsi rispetto al conflitto tra Israele e Iran. Poi a sorpresa, o a tradimento, domenica notte è partita contro l’Iran quella che il Pentagono ha definito «la più grande operazione con bombardieri B-2 mai attuata dagli Stati Uniti». Questo senza che la situazione si fosse aggravata tanto da richiedere una simile missione offensiva. Trump, prospettando ai media una riflessione di due settimane, stava mentendo. Non siamo nati ieri, sappiamo che la guerra è fatta anche di queste dichiarazioni studiate per distrarre o per fuorviare il nemico prima di colpirlo. Ma appunto: di queste strategie è fatta la guerra, non certo la pace. E Trump è arrivato alla Casa Bianca promettendo a gran voce la seconda, non la prima. Colpo su colpo, invece, la sua presidenza sta affossando l’unica via maestra che in Occidente avevamo costruito dopo la Seconda guerra mondiale per assicurare un minimo di equilibrio tra potenze e scongiurare il più possibile qualsiasi scontro militare, figuriamoci uno di natura «preventiva». Lo si chiami soft power, la si chiami diplomazia o lo si chiami diritto internazionale, con tanto di autorevoli tribunali annessi: questo avevamo e questo stiamo perdendo.
Trump, ça va sans dire, non è certo l’unico. Il presidente russo Putin, con l’invasione boots on the ground dell’Ucraina, non ha agito diversamente. Anzi: ha escluso – e continua a farlo – qualsiasi prospettiva di risoluzione diplomatica del conflitto con Kiev. Lo stesso premier israeliano Netanyahu, dopo aver «vendicato» ad ampio raggio l’attacco del 7 ottobre 2023 (si veda il gigantesco dramma che sta attraversando la Striscia di Gaza), anziché tornare in sé ha pensato di allargare il conflitto a diversi Stati vicini, dichiarando una «guerra eterna» che di certo non sta gettando le basi per una pace. Se l’abbia fatto per calcolo politico personale o per strategia geopolitica, non sappiamo né possiamo saperlo: constatiamo, però, che la pace si allontana sempre di più e che si stanno per giunta gettando le basi – innanzitutto psicologiche e sociali – per futuri conflitti.
Abbiamo portato l’esempio di tre leader che da troppo tempo dichiarano un obiettivo, la pace, ma ne perseguono nei fatti un altro, la guerra. Lo loro credibilità è ai minimi storici. C’è da temere, altresì, che sia davvero troppo tardi per ripristinare una cultura della diplomazia. In questi pochissimi recenti anni, essa è stata destrutturata fino a diventare inefficace. Quel che è peggio, è che questa nuova cultura della guerra sta filtrando nell’animo della gente comune, sta diventando una presenza costante, addirittura quasi scontata. Se continuerà così, potessimo pure sostituire tutti i Trump, i Putin, i Netanyahu e gli Ali Khamenei di questa Terra, risolveremmo ben poco.