L'editoriale

La periferia italiana e il partner federale

L’arrocchino dipartimentale da oggi entra nella fase operativa e toccherà al Governo in corpore, che lo ha calibrato e avallato, adoperarsi in modo che le altisonanti promesse si trasformino in realizzazioni
Gianni Righinetti
01.09.2025 06:00

Oggi riaprono le scuole che alimentano ciò che di più sano ha l’essere umano: la sete di conoscenza e la voglia di imparare, che prendono le mosse dal sapere altrui che, con fare altruista, viene trasmesso alle generazioni successive. Dagli adulti ai più giovani, un passaggio naturale, finanche di fiducia nel futuro. E tutto inizierà con una campanella di gioia e di speranza. Ma c’è un’altra campanella che richiama la nostra attenzione e ci incupisce. Quel suono, fondamentalmente mesto, che pochi giorni fa ha dato il via al Gran Consiglio riunito per una seduta straordinaria. Cinque ore di dibattito che ci aprono gli occhi sul peggio della nostra politica che mostra, giorno dopo giorno, segnali di cedimento: l’inesorabile passaggio dall’istituzione che suscitava rispetto e orgoglio nei cittadini, a macchietta stile cabaret di provincia che al massimo fa sorridere. Ma è riso amaro per chi non vuole arrendersi alla deriva. Triste realtà. L’arrocchino dipartimentale da oggi entra nella fase operativa e toccherà al Governo in corpore, che lo ha calibrato e avallato, adoperarsi in modo che le altisonanti promesse si trasformino in realizzazioni. Intanto non rimane che rimarcare lo strappo profondo tra il Governo stesso e il Parlamento, incapaci di dialogare, di produrre, di concertare qualcosa di utile al cittadino e alla comunità. Detto che, per litigare, occorre essere almeno in due, non si tratta di prendere le difese dell’uno o dell’altro, ma di constatare amaramente il decadimento. L’arrocco ha mostrato un Esecutivo coeso al punto che, neppure il più grande regista dell’ottimismo, avrebbe saputo scrivere la trama andata in scena. Se Raffaele De Rosa ha fatto scena muta, Marina Carobbio e Christian Vitta hanno dispensato ottimismo, respingendo con una certa forza le accuse più o meno velate di dilettantismo, come pure di essere al servizio della coppia leghista arroccata (in ogni senso) sulle proprie posizioni. E allora ben venga la coesione, purché non si tratti di una mossa corporativa che finirebbe per non fare l’interesse della governabilità, ma risulterebbe unicamente finalizzata alla logica della contrapposizione con il Parlamento mettendo in atto un gioco delle parti che appartiene ai partiti, ma che risulterebbe imbarazzante da chi rappresenta il potere esecutivo.

La Svizzera non funziona così e il Ticino è Svizzera. Benvenga la collegialità, che è però cosa diversa da quanto osservato con l’arrocchino, perché collegialità non significa appiattimento delle idee, men che meno annullamento della personalità, il tratto contraddistingue i politici da quelli al traino delle mode, quando non delle paure, finanche del quieto vivere. In Ticino abbiamo conosciuto governi all’interno dei quali coabitavano marcate contrapposizioni ideologiche, che lavoravano, litigavano, si confrontavano e, infine, decidevano. In una sola semplice ma autentica parola: governavano. Con un Parlamento nel quale c’erano coraggiosi tenori, mastini. Gente che mordeva, lasciando il segno. La collegialità era un mezzo e non un fine, era animosità, non appiattimento. Era politica, non antipolitica.

Invece di esaltare il lamento perché Berna non fa e perché Berna non dà, mettendosi solo d’impegno per il salvataggio o la conquista della cadrega, prendiamo esempio dalla politica dei fatti che viene messa in atto sotto la cupola di Palazzo federale dove si duella forte e senza freni inibitori sui temi, ma non si esaspera l’attacco alle persone. Lo scontro tra persone è molto italico e sta diventando pure ticinese. In questa realtà poco rallegrante constatiamo che i principali duellanti sono proprio quei partiti per i quali chi giunge da oltre frontiera è sempre da osservare con sospetto, forze politiche che hanno costruito il proprio successo sull’antagonismo nei confronti dell’italiano (assunto dal ticinese). Dal decalogo leghista del 2012 che puntava ad un massimo di 35.000 frontalieri “confinati nei settori dove effettivamente la forza lavoro residente non basta a coprire la domanda”, mentre erano già 50.000. Oggi sono quasi 79.000. Oppure, attorno al 2010, la campagna “Bala i ratt” che raffigurava i frontalieri come topi intorno a un pezzo di formaggio. Una campagna venduta come anonima, ma con marchio dell’UDC dei tempi. È quasi paradossale che oggi siano queste due stesse forze, con i loro litigi (invero smorzati nelle ultime settimane, ma sempre latenti) a trascinarci, politicamente parlando, al livello di periferia italiana e non a dignitoso partner federale.