L'editoriale

La porta diplomatica resta aperta ma è stretta

Se da un lato l’impatto dei dazi rischia di lasciare segni profondi sul tessuto produttivo nazionale, dall’altro la risposta delle istituzioni – tra diplomazia e misure concrete di sostegno – mostra una volontà di reagire con responsabilità
Generoso Chiaradonna
08.08.2025 06:00

Con gli Stati Uniti il canale diplomatico è sempre aperto e si continuerà a cercare un accordo anche nelle prossime settimane. È questo, in sintesi, il messaggio del Consiglio federale nel giorno dell’entrata in vigore dei dazi al 39% su circa il 60% dell’export svizzero verso gli Stati Uniti. Sono esclusi, per ora, i prodotti farmaceutici, su cui grava comunque un eventuale macigno – questa volta settoriale e verso tutte le aziende di qualsiasi Paese – pari al 250%, se non ridurranno in modo sostanzioso i prezzi dei loro prodotti.

Nel frattempo, il governo svizzero dovrebbe discutere in dettaglio eventuali sgravi per le imprese e continuerà a esaminare ulteriori misure di politica economica. Il potenziamento dello strumento delle indennità per lavoro ridotto è una di queste. Il prolungamento della durata del termine quadro di questo ammortizzatore sociale, che permette alle aziende di non privarsi di personale qualificato – dagli attuali 18 a 24 mesi, già accettato dalle Commissioni parlamentari competenti – è sostenuto anche dal Consiglio federale. Basteranno questi strumenti a evitare una crisi economica? Su questo punto si potrebbe discutere a lungo. L’economia svizzera ha mostrato, anche nel recente passato, un certo grado di resistenza alle situazioni avverse, ma nell’ultimo anno la dinamica – tenendo conto anche dell’indebolimento della congiuntura internazionale – non è stata così brillante. A giugno, la crescita era stimata tra lo 0,6% e l’1%. Se i dazi al 39% – è bene ricordarlo – dovessero permanere a lungo, un peggioramento ulteriore è da mettere in conto. Non si può nemmeno escludere a priori una recessione. Le imprese più esposte sul mercato americano e che non hanno la possibilità di attutire il colpo con delocalizzazioni e investimenti oltre Atlantico ne pagheranno le conseguenze in termini di minore fatturato. Di solito, alla riduzione dei ricavi si risponde cercando di adeguare la struttura dei costi. Detto in altri termini, licenziamenti di personale e chiusure di aziende non saranno solo un’ipotesi.

Con il presidente degli Stati Uniti, volitivo finché si vuole, bisognava parlarci, assecondarlo nei suoi capricci e quasi vezzeggiarlo – magari andandoci anche a giocare insieme a golf – sostiene chi accusa il Consiglio federale e in particolare la presidente Karin Keller-Sutter, di non aver fatto abbastanza per portare a casa un accordo. L’altra accusa è quella di essere andati troppo tardi a Washington, quando ormai la frittata era fatta. La risposta l’ha data la stessa Keller-Sutter: «Non possiamo promettere agli Stati Uniti cose che non possiamo mantenere. La Svizzera deve rimanere un partner affidabile. Dobbiamo difendere i nostri valori», ha risposto a precisa domanda. La Svizzera non può promettere, per esempio, di comprare più gas liquido o petrolio dagli Stati Uniti: il mix energetico nazionale non si basa sugli idrocarburi. Non può nemmeno ventilare l’ipotesi di acquistare ulteriori armamenti al di là degli impegni presi con i jet F-35 e il sistema antimissile Patriot. Anche in questo caso è stato ribadito che il contratto firmato con la Lockheed Martin verrà onorato. La Svizzera – ha continuato Karin Keller-Sutter – «offre certezza del diritto, opera in modo affidabile ed è politicamente stabile. Questi punti di forza devono essere coltivati e migliorati ancora più intensamente». Dall’altra parte c’è invece un signore che considera le trattative internazionali alla stregua di uno scontro dove il vincitore deve essere uno e uno soltanto mosso dallo slogan America first e che vuole avere sempre l’ultima parola. In un contesto internazionale sempre più instabile e competitivo, la Svizzera si trova ora a dover bilanciare fermezza e pragmatismo, difesa degli interessi economici e rispetto dei propri valori fondamentali.

Se da un lato l’impatto dei dazi rischia di lasciare segni profondi sul tessuto produttivo nazionale, dall’altro la risposta delle istituzioni – tra diplomazia e misure concrete di sostegno – mostra una volontà di reagire con responsabilità. Resta da vedere se sarà sufficiente. Ma una cosa è certa: la sfida non si gioca solo sul terreno delle trattative internazionali, bensì anche sulla capacità interna del Paese di adattarsi, innovare e restare coeso. 

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