La serrata usa che impatta l’economia e la finanza

Da più di una settimana gli Stati Uniti sono ufficialmente in government shutdown, ovvero in «serrata», per usare il termine italiano analogo. I servizi pubblici non essenziali forniti dall’amministrazione federale sono di fatto bloccati. Il mancato accordo sulla legge di bilancio tra repubblicani e democratici al Congresso, in particolare sui fondi destinati alla sanità, ha decretato di fatto il congelamento del 27% della spesa federale. Senza un’approvazione dei fondi necessari a finanziare i servizi pubblici, questi smettono di funzionare regolarmente.
Nello specifico, tutti i dipendenti impegnati in servizi federali essenziali (Difesa, Sanità, Commercio e Trasporti) continueranno a lavorare senza però percepire uno stipendio. Tutti gli altri, non considerati essenziali, saranno sospesi temporaneamente, più precisamente, messi in «congedo non retribuito». Insomma, il sogno di ogni liberista convinto, che vorrebbe ridimensionare il ruolo dello Stato.
Secondo le stime degli analisti, circa 430 mila lavoratori federali saranno in congedo forzato, mentre altri 480 mila dovranno comunque lavorare senza però percepire il proprio stipendio. Questo, chiaramente, avrà ricadute importanti sull’economia americana, soprattutto se lo shutdown dovesse prolungarsi per settimane.
Gli Stati Uniti non sono nuovi a esperienze di blocco dell’amministrazione. Negli ultimi cinquant’anni - dal 1975 - si sono verificate ben venti serrate degli uffici governativi, l’ultima delle quali, la più lunga (36 giorni), nell’autunno del 2019, durante il primo mandato di Donald Trump. All’epoca il nodo era costituito dai fondi richiesti al Congresso per finanziare la costruzione del muro anti-migranti alla frontiera con il Messico. Ma nel corso degli anni gli shutdown sono stati bipartisan: hanno colpito Democratici e Repubblicani quasi in egual misura. Nel 2013 toccò al rieletto per il secondo mandato Barack Obama subire un blocco dell’amministrazione federale. L’oggetto del contendere fu l’opposizione all’aumento del tetto del debito federale e la contestata riforma sanitaria nota come Obamacare, che intendeva garantire un minimo di assistenza sanitaria a chi era escluso dal sistema delle assicurazioni private. Prima ancora, anche le amministrazioni di George H. W. Bush, Bill Clinton, Ronald Reagan e Gerald Ford sperimentarono periodi di shutdown.
Come spesso accade, però, ciò che avviene a Washington non rimane confinato agli Stati Uniti. Gli effetti si propagano al resto dell’economia globale e la via privilegiata è quella dei mercati finanziari, valutari e dei metalli preziosi. Gli investitori, infatti, odiano l’incertezza politica: anche se lo shutdown di per sé non equivale a un default, crea timori su una gestione inefficiente del debito e può portare a vendite sui mercati azionari nel breve termine. Nell’ultima settimana si sono registrate correzioni quasi impercettibili, ma questo non mette al riparo da nulla. L’incertezza sulla politica fiscale tende a indebolire il dollaro, mentre gli investitori si concentrano su valute più stabili come lo yen o il franco svizzero, anche come conseguenza delle operazioni di carry trade. Ma è la domanda di metalli preziosi che tende ad aumentare in questa fase di instabilità e, con essa, i prezzi di oro e argento - ai massimi storici: oltre 4 mila dollari l’oncia il primo e più di 50 dollari il secondo. Un altro modo, in fondo, per esprimere la perdita di fiducia nel dollaro.
Infine, se il blocco dovesse prolungarsi oltre misura, potrebbe far dubitare gli investitori della capacità politica di gestire il debito, portando a un aumento dei rendimenti dei titoli del Tesoro USA. Ogni settimana di stop, costerebbe lo 0,2% del PIL.