L'editoriale

L'alternativa orientale all'ordine globale

La globalizzazione cambia volto, con l'asse Pechino-Mosca-Nuova Delhi che riscrive le regole del commercio mondiale e riaccende le tensioni tra blocchi rivali
Generoso Chiaradonna
04.09.2025 06:00

Il processo di globalizzazione non è soltanto una dinamica economica: è un concetto politico e culturale che ha contraddistinto la nostra epoca. Gli ultimi decenni - a partire dalla caduta del Muro di Berlino - avevano abituato il mondo a pensarsi come un unico mercato integrato, in cui la storia e la politica restavano sullo sfondo. A prevalere erano i rapporti di forza economici e commerciali. Oggi accade l’opposto: la politica è rientrata prepotente sulla scena, ridefinendo i confini del commercio e la memoria storica diventa materia viva della geopolitica e anche dell’economia. Tensioni commerciali, sanzioni, pandemia e conflitti regionali hanno favorito una tendenza opposta: la deglobalizzazione. Non una dissoluzione completa della cooperazione internazionale, ma una ristrutturazione delle reti globali secondo logiche che seguono linee geostrategiche (amici e nemici) e non la mera convenienza economica. In questo contesto, Cina e Russia emergono come protagoniste di un processo ambivalente: non soltanto reattive al cambiamento, ma anche impegnate nella costruzione di una visione alternativa all’ordine internazionale occidentale. Pechino, che dalla globalizzazione ha tratto la sua ascesa sul palcoscenico mondiale fino a diventare la «fabbrica del mondo», cerca ora di gestire un processo di riduzione delle dipendenze esterne, puntando su innovazione interna e su una rete di infrastrutture globali. La famosa «Via della Seta» è una di queste. Mosca, invece, spinta dall’isolamento imposto dalle sanzioni a seguito dell’invasione dell’Ucraina, reagisce costruendo alleanze con chi non si riconosce più in quello che una volta veniva definito il mondo libero. La Russia, rispetto alla Cina, è in una posizione più subalterna, ma tenta di ritrovare una nuova centralità.

L’incontro dei giorni scorsi tra Xi Jinping e Vladimir Putin, in occasione delle celebrazioni per l’80. anniversario della sconfitta dell’invasore giapponese nella Seconda guerra mondiale, è stato molto più di un rito commemorativo. A Mosca, lo scorso maggio, Xi ha preso parte al Victory Day, sedendo accanto a Putin sul palco della parata militare che ricordava la vittoria sui nazisti. A Pechino, lo stesso Putin è comparso accanto al leader cinese e a Kim Jong-un, mentre carri armati, missili ipersonici e droni sfilavano in piazza Tienanmen. Non è soltanto il ricordo di una guerra lontana, ma la messa in scena di un nuovo asse politico. E mentre la memoria del passato viene trasformata in leva per la costruzione di un ordine multipolare, gli Stati Uniti scelgono la strada opposta: quella del ritorno al protezionismo. Con Donald Trump la retorica dell’America First si è tradotta in dazi, restrizioni e tentativi di riportare la produzione all’interno dei confini nazionali. È un paradosso: il Paese che più di tutti ha beneficiato dell’apertura globale, favorendola, ora ne ridisegna i limiti, temendo la concorrenza cinese e il disallineamento di parte del Sud globale. L’Europa, intesa non solo come UE, appare invece spettatrice passiva, subendo i dazi dell’alleato statunitense.

Il risultato è una scena internazionale sempre più polarizzata: da una parte, l’Occidente che si ritrae, protegge i propri mercati e investe massicciamente nella sicurezza militare; dall’altra, Cina e Russia che non sono da meno nella corsa agli armamenti e tentano di proporre un nuovo racconto della globalizzazione, non universale ma multipolare, in cui la storia e la geopolitica contano più dei flussi commerciali.