Le mille vite del Cavaliere tecnicamente immortale

Può sembrare incredibile ma anche di fronte all’aggravarsi della malattia ci eravamo un po’ abituati all’idea che Silvio Berlusconi fosse immortale. Una roccia che ha resistito a troppe tempeste. Del resto lui di vite ne ha vissute tante. Non si può dire che si sia risparmiato in nulla. Anzi, fosse stato più prudente avrebbe evitato molti guai, non solo suoi. Non lo abbiamo mai visto nel pieno della sua età, ma sempre accuratamente truccato. Se si fosse tolto la maschera non lo avremmo più riconosciuto. Ci saremmo sentiti più vecchi anche noi. E ne saremmo rimasti delusi, questa è la verità.
Una vita, quella del Cavaliere, spesa all’inseguimento del successo. Negli affari, nella politica, nello sport - sgomitando con le regole pur con tratti indubbi di genialità - ma soprattutto alla ricerca dell’eterna giovinezza. Un’ossessione. Una volta il suo medico disse, tra il serio e il faceto, che Berlusconi era tecnicamente immortale. E lui essendo un impareggiabile uomo di marketing alla fine ce lo fece un po’ credere. E forse, sotto sotto, ne coltivò il sogno. Si definiva «un unto dal Signore». Oggi nel dargli l’ultimo doveroso addio, rimaniamo stupiti che uomo di controversa grandezza, ma pur sempre grandezza, non sia stato in grado di passare per tempo il testimone. In politica come in azienda dove è tutta da regolare una successione con cinque figli di due matrimoni. La sua creatura Forza Italia resta priva del fondatore (e del finanziatore). Svuotata. È paradossale, se guardiamo alla sua trentennale vicenda politica, che il tre volte premier sia passato, da minaccia della democrazia - quando carico di un conflitto d’interesse si presentò sulla scena elettorale - a baluardo centrista e liberale di una maggioranza di governo troppo spostata a destra.
Il Cavaliere non ha eredi ma la sua impronta, nel bene e nel male, rimarrà a lungo. E sotto questo aspetto si può dire che un briciolo di immortalità, tutto sommato, l’abbia avuto. Un lascito in chiaro scuro. Da una parte la figura di un imprenditore di successo che, contro anche i consigli dei suoi amici più stretti, «scende in campo» nel 1994 e vince subito le elezioni. Dà peso a quel mondo della piccola industria e del lavoro autonomo che si riteneva sotto rappresentato. Unisce gli opposti del leghismo bossiano e del postfascismo e sdogana questi ultimi. Giorgia Meloni dovrebbe nutrire una gratitudine infinita. Sconfigge la sinistra che si sentiva già padrona del Paese che lo criminalizza al di là delle sue colpe.
Berlusconi è stato l’indubbio autore dell’eccessiva personalizzazione della politica italiana (e non solo) e della rilevanza dell’immagine, dell’apparenza. Un prototipo, tra il simpatico e lo spaccone, di un’italianità media. Brillante, seduttivo, generoso. Incapace di accettare soltanto l’idea che qualcuno non gli volesse bene. Interprete di molti dei difetti nazionali: l’idiosincrasia per le regole, soprattutto tributarie (del resto la condanna in giudicato era per frode fiscale), una precoce tendenza populista a promettere ciò che era impossibile. Non pochi i pregi, però. Tutti racchiusi nei suoi successi. Innovazione (nell’edilizia, nelle televisioni commerciali, nell’editoria), ferrea disciplina del lavoro. All’estero è stato forse più conosciuto per le sue gesta private (indagate da una magistratura che non ha mancato di apparire persecutoria), ma si devono a lui, per esempio, il riavvicinamento tra Stati Uniti e Russia e gli accordi di Pratica di Mare nel 2002. Di quella storica intesa, prematuramente tramontata, gli rimase l’amicizia con Putin. Un rapporto che non ha mai rinnegato - nemmeno di fronte all’invasione dell’Ucraina - causando non pochi problemi all’attuale governo. Sembrava ai suoi tanti detrattori internazionali un modello solo italiano. Poi ci si accorse che di imitatori ne aveva parecchi. E Donald Trump che - come lui negli anni di massimo potere - si sente perseguitato dalla magistratura e dai mezzi d’informazione, appare oggi quasi una copia. Persino un po’ sbiadita.