L'editoriale

Le speranze delle COP ai tempi delle guerre

Allora come oggi, al centro delle discussioni vi sono le distanze tra il mondo industrializzato e i Paesi più poveri
Paolo Galli
29.11.2023 06:00

Con questa faranno ventotto. Ventotto volte COP. Ventotto anni di discussioni sul clima, sul mondo che cambia. Da Berlino a Dubai, da Angela Merkel - all’epoca, era il 1995, giovanissima ministra dell’Ambiente della Repubblica Federale Tedesca - al controverso emiro Sultan Al Jaber, l’evoluzione dell’appuntamento non ha mai nascosto le velleità politiche e propagandistiche dei Paesi ospitanti e dei loro singoli protagonisti. Un’evoluzione che non ha cancellato le disparità tra i mondi né tantomeno le tendenze climatiche. Allora come oggi, al centro delle discussioni vi sono le distanze tra il mondo industrializzato e i Paesi più poveri. A Berlino il confronto risultò acceso proprio tra i differenti gradini della scala economica, mentre lo scorso anno a Sharm el-Sheikh centrale fu l’accordo sul cosiddetto loss and damage, la creazione di un fondo per pagare perdite e danni ai Paesi colpiti da una crisi climatica che non hanno contribuito a creare. Insomma, le COP da sempre hanno riconosciuto ai Paesi più ricchi una responsabilità diretta sul surriscaldamento globale. E i Paesi più ricchi, in fondo, non negano di aver giocato un ruolo decisivo nel lanciare verso l’alto la corsa delle temperature mondiali. Una corsa che procede a gran velocità, con notevoli balzi da un anno all’altro, sino a questo 2023, che è già stato etichettato come l’anno più caldo di sempre. Lo sarà, almeno fino ai prossimi record. È impensabile un’inversione di tendenza, almeno per ora, di certo non con questo mondo, bellicoso e complesso, fuori dalla porta.

In questo senso, non possiamo pretendere dalle COP una soluzione che, come un colpo di spugna, cancelli il cambiamento climatico o che, addirittura, ne faccia un cambiamento in positivo. In questo senso, la definizione di «cambiamento climatico» forse non è neppure del tutto onesta. Perché spesso un cambiamento porta con sé anche alcune opportunità, mentre in questo caso è ormai chiaro come non ci siano vantaggi, dietro l’angolo, se non qualche futile ed evanescente opportunismo turistico. Nulla più. Anche questa COP si adeguerà ai tempi che corrono, si accontenterà di riportare a galla alcune preoccupazioni, condividendole con i media e l’opinione pubblica. Forse si arriverà a un nuovo accordo - come ci si aspetta da ogni COP -, ma difficilmente si potrà ripetere Parigi. Sono cambiate le condizioni e sono precipitati gli equilibri. Oggi la questione climatica neppure sembra più una priorità. Massì, è ancora presente, qua e là, negli appuntamenti diplomatici a ogni livello - ne hanno parlato anche Joe Biden e Xi Jinping nel loro recente incontro a San Francisco -, ma più come atto dovuto che non come reale intenzione di progresso. Promesse volatili, fumo negli occhi. Le COP stesse sono anche questo.

Rappresentano però la speranza, l’idea che ci siano ancora margini di intervento, che la questione non venga dimenticata, sacrificata tra troppa guerra, tra le pieghe di una crisi che è anche economica e sociale. La questione d’altronde tocca tutti, a ogni livello. Entra nella vita quotidiana sotto forme che neppure ci aspettiamo, dalla povertà globale fino alla nostra passione per lo sci alpino. Sta cambiando il mondo e la percezione che ne abbiamo. A volte sbuffiamo, di fronte alle notizie sulle alte temperature del globo, sui nuovi record, ma poi vediamo sotto i nostri occhi che i ghiacciai si stanno sciogliendo. E capiamo che quegli allarmi sono realtà.

Ciò non significa che dobbiamo cadere nel panico di fronte a ingiustificate prospettive distopiche, ma che semplicemente dobbiamo ammettere di avere un problema. Le COP ci ricordano che quello del cambiamento climatico è un problema. E che qualcosa, per migliorare il mondo, si può sempre fare.

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