L'editoriale

L’esempio degli atenei nel rispetto dei limiti

Se da una parte le università sono ambienti che promuovono il libero scambio di idee e il pensiero critico, dall’altra gli studenti si affacciano alla vita politica con una sensibilità sociale, spesso, molto marcata ed esigente – Non è quindi un caso che, in queste settimane di tensioni, le istituzioni abbiano deciso di rispondere alle occupazioni con la carta del dialogo
Francesco Pellegrinelli
14.05.2024 06:00

Che le proteste pro-Palestina potessero estendersi a buona parte delle università svizzere non era solo intuibile ma, in una certa misura, anche scontato. Dopo Losanna, Zurigo e Ginevra, nelle ultime 48 ore si sono aggiunte anche Berna, Friburgo e Basilea. Gli atenei, di fatto, sono luoghi di confronto e - storicamente - anche di attivismo politico e militanza. Fa parte delle regole del gioco. Se da una parte le università sono ambienti che, per loro natura, promuovono il libero scambio di idee e il pensiero critico, dall’altra gli studenti si affacciano alla vita politica con una sensibilità sociale, spesso, molto marcata ed esigente. Uno slancio che, in generale, va salutato positivamente. Non è quindi un caso che, in queste settimane di tensioni, le istituzioni abbiano deciso di rispondere alle occupazioni con la carta del dialogo.

Solamente al Politecnico di Zurigo il rettorato ha reagito con fermezza, smorzando sul nascere ogni tentativo di occupazione. Una decisione, tuttavia, dettata da precise ragioni di sicurezza legate alla presenza nello stabile di laboratori e strumentazione tecnica che, in alcun modo, andavano compromessi.

A Losanna, Ginevra, Berna, Friburgo e Basilea - dove una minoranza di studenti ha aderito alla protesta filo-palestinese - le istituzioni hanno interpretato con grande equilibrio la natura del proprio mandato. In una recente intervista, pubblicata su queste colonne, Luciana Vaccaro, presidente di swissuniversities, utilizzava una metafora sufficientemente chiara: «Sarebbe un po’ come buttare fuori casa i propri figli perché non siamo d’accordo con loro». E ancora: «Le università non sono un supermercato dove, se non ti piace la merce, ti giri e vai». Vaccaro insomma chiamava le istituzioni a un gesto di compromesso, in virtù di un prodotto, il dialogo, da difendere oltre le divergenze. Perché se è vero che «tutto è politica», è vero anche che il consenso va costruito. Finché si possono svolgere attività di ricerca e formazione, e finché non vi sono atti illegali, quindi, è meglio dialogare. Chiudere il canale della comunicazione sarebbe controproducente. Poi, però, Vaccaro aggiungeva: «Spetta al singolo istituto valutare fino a che punto dialogare e da quale momento usare la fermezza».

E qui, la questione del limite sembra fondamentale. Per esempio, ci si potrebbe chiedere se lo slogan che campeggia nella hall di Uni Mail a Ginevra - «From the river to the sea, Palestine will be free», ossia dal fiume al mare, la Palestina sarà libera - in qualche modo non oltrepassi quei limiti della tolleranza accademica a cui la protesta pacifica dichiara di voler aderire. Al di là di ogni credo politico. Gli attivisti ginevrini - sollecitati dal rettorato - hanno spiegato che in alcun modo si tratta di un appello alla distruzione di Israele, ma di una critica della sua politica di apartheid. Del resto, ci si potrebbe anche interrogare sull’opportunità che alcuni professori aderiscano alla protesta studentesca, occupando un’istituzione pubblica che, per sua definizione, dovrebbe garantire la molteplicità dei punti di vista.

I vertici di Unige, in un primo momento, hanno rilanciato il dialogo promuovendo un collegio scientifico, esteso agli studenti, sul ruolo degli atenei dinanzi ai conflitti armati. Buone intenzioni andate in fumo di fronte alla mancata intesa con il collettivo, il quale ha ribadito, qui come altrove, il boicottaggio delle collaborazioni accademiche con le università israeliane. Richiesta a cui nessun ateneo ha voluto dar seguito. «Non siamo un organo politico», hanno risposto le università interessate. Nella hall di Uni Mail, intanto, quello slogan continua a campeggiare, con buona pace di una parte di studenti che leggendo quelle parole sente una stonatura difficile da accettare, dolorosa, certo, come la guerra e le sue vittime. Intanto, proprio ieri l’alma mater ha presentato una denuncia per violazione di domicilio, il che apre la strada all’intervento della polizia anche a Ginevra. Mentre a Berna il rettorato ha fermamente criticato le modalità di occupazione degli studenti.

Infine, ci si potrebbe anche chiedere perché questa tragedia umanitaria divida e polarizzi tanto. La percezione diffusa è che Israele, Paese democratico, voglia sottrarsi ad alcuni principi di condotta della guerra.

Ognuno, insomma, come spesso accade in politica, ha le sue ragioni. Senza volersi appellare alla libertà di espressione, le proteste degli studenti hanno il merito di tenere alta l’attenzione su una tragedia umanitaria, ma è chiaro che le università devono poter continuare a fare le università, promuovendo il dialogo e lo studio razionale degli eventi. Quello che, in definitiva, stanno facendo con grande equilibrio, tenendo però presente che esistono limiti che non vanno superati.