L'etilometro non tarato e il ridicolo che uccide

Da una parte una sentenza d’assoluzione rallegrante per i due agenti intervenuti quella maledetta notte d’autunno in Leventina, ma il verdetto che genera umana gioia a loro e alla parte «politicamente assolta» (seppur non formalmente chiamata in causa nel procedimento giudiziario) solleva dubbi lancinanti non solo al procuratore generale Andrea Pagani, che attende di leggere le motivazioni scritte prima di decidere se ricorrere in appello o meno, ma pure a fior di avvocati «neutrali» sulla vicenda, increduli. La frase «quale motivo avrebbero avuto per favorire Norman Gobbi?» pronunciata dalla giudice della Pretura penale Elettra Orsetta Bernasconi Matti al momento della sentenza, risuona e rimbomba anche a giorni di distanza. Ma su questo punto facciamo due passi indietro per il dovuto rispetto nei confronti del potere giudiziario e delle spiegazioni che, auspichiamo, convinceranno più delle parole pronunciate la settimana scorsa in aula. Insomma, altro che caso chiuso, nessun «happy end» con il classico «e vissero felici e contenti». Il «caso Gobbi», perché tale è stato nel corso del dibattimento, oggi lo è a maggior ragione per gli effetti politici che non si sono spenti ma al contrario amplificati. E non soltanto perché il presidente del Centro Fiorenzo Dadò (con il sostegno della vice in casa PLR Natalia Ferrara) stia picchiando duro, ma perché l’utilizzo abituale di etilometri non calibrati, emersa in tutta la sua dimensione nel corso del processo, chiama in causa il comando della Polizia cantonale, lo stesso Gobbi e il suo successore Claudio Zali, indotto in Gran Consiglio a sostenere il falso quando, come ricordato da Dadò, aveva affermato che «nessun automobilista era stato sottoposto a controlli con un etilometro non calibrato». Ma scherziamo? Zali e il Governo si fanno mettere in bocca per il tramite di un atto ufficiale parole che cozzano con la realtà dei fatti?
La gravità istituzionale di tutto questo è massima e il fatto che la bugia non sia mai stata corretta dal vertice della Polizia per mesi e che solo grazie all’onestà individuale di uno degli imputati («mi vergogno a dirlo, nascondevamo l’apparecchio per non farlo leggere all’utente di turno») sia emersa, rappresenta qualcosa che meriterebbe interventi senza mezze misure e almeno delle spiegazioni o delle scuse da parte della Polizia. E invece si tace. Non parla il Governo, non chi ha avuto e chi ha oggi la responsabilità della Polizia, con quest’ultima che si trincera dietro a un «no comment» perché sull’oggetto ci sono atti parlamentari pendenti. Ed ecco il paradosso: le interpellanze e le interrogazioni parlamentari, volte a fare chiarezza e luce pubblicamente, vengono messe in letargo per puntuale interesse corporativo/politico con l’alibi dei procedimenti giudiziari in corso. Poi, quando emergono fatti nuovi e degni di nota (etilometri) e si chiede al vertice della Polizia udienza per rispondere a qualche domanda/dubbio, ecco che si dice che non si può rispondere perché ci sono atti parlamentari pendenti. Davvero squallori da Bananenrepublik e ci viene spontanea una domanda. In Polizia sono tutti in letargo? Chiudiamola qui. Inutile sperare in un lucido risveglio. È tutto davvero imbarazzante e ridicolo. È il ridicolo che uccide, ma nessuno si rende conto di quanto abbiamo sotto gli occhi? Il sondaggio che ci ha mostrato l’insoddisfazione di chi lavora in Polizia sarà anche «solo» la somma di tante opinioni soggettive (ma di vita professionale vissuta) mentre la questione etilometri è più che mai oggettiva e richiama chi di dovere alle sue responsabilità. Alla faccia della credibilità nelle Istituzioni, mentre pochi sembrano rendersi conto del danno che noi cittadini abbiamo sotto gli occhi, e qualcuno pretenderebbe il silenzio della pubblica opinione. Per descrivere la situazione che stiamo vivendo in Ticino, ci viene in soccorso Niccolò Machiavelli ne «Il Principe»: «Coloro che vincono, in qualunque modo vincano, mai non ne riportano vergogna».
Appare evidente che nella pratica del potere i risultati contano più dei mezzi, ma questa non è una sorpresa né un’esclusiva del caso che abbiamo sotto gli occhi, è una regola universale della politica che non conosce colore politico nemmeno tra chi finge di credere che la Svizzera sia diversa. Poi le arrampicate domenicali sugli specchi per dire che non esiste alcun «caso Gobbi» sono un po’ come la tiritera secondo cui «Il Mattino non è il giornale della Lega». La solita stucchevole litania da sbadigli. Ma si sa, «il fine giustifica i mezzi», anche se prendere sempre tutti per fessi e avere la pretesa dell’imbecillità altrui, travalica anche ogni fantascientifica illusione. I poliziotti, non per effetto della sentenza d’assoluzione, bensì per onestà intellettuale e logica dei fatti, sono stati strumento di questo strafalcione istituzionale, la vergogna non dovrebbe ricadere su di loro, ma su altri. Quelli, ahinoi, silenti. Sia chiaro però che la «vittoria» giudiziaria non normalizza un bel nulla. La credibilità non si conquista con sotterfugi o presunti magheggi.