L'editoriale

L’incubo profetico del burbero Lovecraft

Howard Phillips Lovecraft, il «Solitario di Providence», è uno di quei casi in cui al genio letterario ha fatto da contraltare una personalità assai discutibile e per molti versi, soprattutto se osservata con i nostri occhi di contemporanei, piuttosto odiosa
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
27.09.2025 06:00

Antipatico è un eufemismo che forse l’avrebbe offeso per eccesso di indulgenza. Howard Phillips Lovecraft, il «Solitario di Providence», è uno di quei casi in cui al genio letterario ha fatto da contraltare una personalità assai discutibile e per molti versi, soprattutto se osservata con i nostri occhi di contemporanei, piuttosto odiosa. Da una parte abbiamo quindi il sublime narratore, il creatore di inquietanti mondi immaginari, che diffonde la sua sterminata cultura in un infinito corpus letterario, dando vita ad un nuovo genere. Quello strano irresistibile miscuglio tra fantasy, horror e fantascienza che gli anglisti oggi definiscono appunto «weird fiction» e che sempre più (chi non conosce i Miti di Cthulhu, I Grandi Antichi o Abdul Alhazred, «l’arabo pazzo», autore di fantasia dell’enigmatico e oscuro Necronomicon?) intriga e influenza l’immaginario collettivo di noi moderni. Dall’altra, ecco una personalità a dir poco difficile, un carattere impossibile, da ultramisantropo, antisociale, infarcito di fisse e manie al limite del grottesco (la sua ailurofilia lo portava a non spostarsi per notti intere dalla poltrona per non disturbare il gatto di turno, ne aveva tantissimi, che gli si era accoccolato sulle ginocchia, con conseguenze importanti a lungo termine sulla sua capacità di stare in piedi e camminare normalmente) e pervaso da tutta una serie di convinzioni a dir poco politicamente scorrette: dal disprezzo per le donne alla sfiducia nella democrazia nel prevenire i conflitti, fino al classismo aristocratico e ad una snobistica xenofobia ai limiti dell’inaccettabile determinismo razziale. Eppure, l’allampanato maestro del mostruoso era un genio e, lo si è scoperto solo dopo la sua morte avvenuta a soli 47 anni nel 1937, uno dei più copiosi epistolografi di ogni tempo. Lo capirono i pochissimi amici che salvarono le sue lettere ricavandone una selezione di circa un migliaio raccolte in cinque volumi, ma sembra che l’intero corpus ammonti ad almeno centomila, tutte scritte tra i vent’anni e la morte in quella che durante gli ultimi anni di dolorosa malattia era diventata per lui un’occupazione a tempo pieno. Ora un esempio formidabile di quel Lovecraft «alternativo» risalente al 9 novembre 1929 arriva in libreria anche in italiano nella limpida traduzione di Ottavio Fatica per i prestigiosi tipi di Adelphi con un titolo che, nella nostra lingua, è già tutto un programma, Potrebbe anche non esserci più un mondo. Scritta in quella che, almeno nell’anima dell’autore, fu sicuramente una notte buia e tempestosa e indirizzata all’ «amico sconosciuto» e aspirante scrittore Woodburn Prescott Harris (che in fondo siamo semplicemente noi, lettori del futuro) la strabocchevole digressione lovecraftiana sorprende per lucidità e capacità di immaginare i disastri di questo presente confuso, declinante e disperato. Con dei guizzi che hanno del profetico - o forse semplicemente sono frutto di un uomo ben conscio della natura umana - e uno sguardo dissacrante sulla realtà, Lovecraft predice con precisione, e mancano solo nomi e cognomi per non sbalordire su quanto tutto abbia il sapore dell’attualità, la spaventosa degenerazione cui gli Stati Uniti andranno (o meglio sono già andati) incontro, con quel che ne consegue per i valori occidentali. Ma soprattutto si scaglia (quasi un secolo fa!) contro il dominio delle macchine che persino la sua fantasia tragicamente folle fatica ad immaginare parlanti, pensanti o, men che meno, intelligenti. «Ritengo la cultura delle macchine inferiore alla nostra - scrive - perché fa assurgere un gruppo di qualità assolutamente insignificanti come la velocità, la quantità, l’operosità fine a se stessa, la ricchezza, l’ostentazione eccetera, al rango di virtù capitali; perché distrugge i normali rapporti con l’ambiente e le tradizioni filtrati dal ricordo; perché mette in risalto l’uniformità invece dell’individualità e perché il risultato finale è un circolo vizioso di attività che non porta da nessuna parte». Vi ricorda qualcosa? Gli avessero detto che oggi il più inconfessabile dei segreti per buona parte dell’umanità è deresponsabilizzarci (nel senso di liberarci dalle responsabilità dell’esistenza) e dismetterci da quelle impalcature burocratiche che chiamiamo Storia, affidando alle macchine perfino il privilegio di pensare com’è, appunto nel caso dell’IA, Lovecraft, la burbera cassandra del Rhode Island, non ci avrebbe pensato due volte consegnandosi spontaneamente al «caos strisciante» di Nyarlathotep o ai tentacoli implacabili di Ghatanothoa.