L'editoriale

L'ombra di Diogene e il culto del «troppo»

Viviamo nell’epoca di maggior benessere e libertà della storia umana, eppure una cappa di pessimismo ci avvolge: a un’esteriorità sempre più debordante di informazioni, oggetti, esperienze e opzioni di vita rischia di corrispondere un’interiorità sempre più impoverita, arrabbiata e fragile
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
07.07.2025 06:00

Fossimo a Corinto nel IV secolo avanti Cristo potremmo lasciarci ispirare dal coraggio cinico (nel senso proprio della corrente filosofica fondata da Antistene di Atene) di un «faccia di tolla» come Diogene di Sinope. Certo, per uno che passò quasi tutta la sua vita dentro una botte preferendo la compagnia dei cani randagi e che, una volta visto un ragazzo che beveva dall’incavo delle mani, decise di rinunciare con disprezzo anche alla sua unica scodella di legno (a quel punto ritenuta un lusso superfluo) mandare garbatamente a quel paese Alessandro il Macedone (all’epoca non ancora Magno ma quasi) e le sue profferte deve essere stata una reazione abbastanza naturale.

Pensiamoci: ti arriva senza farsi annunciare davanti alla botte con tutto uno stuolo di cortigiani l’uomo più potente del mondo allora conosciuto, che tra l’altro si professa tuo incondizionato ammiratore, e si dice pronto ad esaudire qualsiasi tuo desiderio e tu cosa gli rispondi? Se sei Diogene gli chiedi di levarsi dal sole perché ti sta facendo ombra, passi alla Storia e, come precisa Plutarco, ti conquisti definitivamente il promettente condottiero sangue blu che infatti per tutta la vita, breve ma onusta di gloria e trionfi semidivini, andrà ripetendo: «Se non fossi Alessandro vorrei essere Diogene».

È chiaro però che se la celeberrima storiella sbalordiva già il mondo ellenistico e quello classico latino, per non parlare degli impressionabili medievali, oggi un comportamento del genere assume i contorni della barzelletta più che quelli della parabola o dell’allegoria. Misura, temperanza, equilibrio, nel nostro mondo sono valori del tutto démodé e a pensarci bene delle quattro virtù cardinali individuate da Platone – la moderazione, il coraggio, la sapienza e la giustizia – da qualche secolo la prima è quella che ci colpisce di meno. Questo perché è la prima volta nella storia che la società intera deve imparare a gestire «un di più». Fino almeno alla Rivoluzione industriale l’umanità aveva sempre avuto a che fare con la scarsità, con la penuria, con il bisogno atavico, ancestrale e inesauribile. Oggi, il problema è incredibilmente l’opposto. E anzi, adesso, siamo velocemente passati da un eccesso di beni materiali con l’avvento del benessere diffuso ad un eccesso di informazioni incontrollate e spesso inutili con la rivoluzione digitale che stiamo vivendo: dall’offerta continua di contenuti sui social network, alla ricezione costante di informazioni, immagini e notizie, all’inserimento dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale nel quotidiano. Un culto del «troppo» che logora la conoscenza autentica e ci precipita in quella società raggelante di «ignoranti bene informati» (ma poi quanto, e quanto «bene», informati?) che già tanti danni sta provocando.

È anche da queste premesse che muove la profonda riflessione che il filosofo italiano Tommaso Codignola ha affidato alle pagine del notevole La civiltà dell’eccesso. Curare l’anima nell’epoca della quantità (uscito per le Edizioni di Storia e Letteratura) che prova anche a fornire qualche risposta intelligente alle angosce del nostro tempo sovraccarico di tutto e infelice per niente. Viviamo, ci spiega l’autore, nell’epoca di maggior benessere e libertà della storia umana, eppure una cappa di pessimismo ci avvolge: a un’esteriorità sempre più debordante di informazioni, oggetti, esperienze e opzioni di vita rischia di corrispondere un’interiorità sempre più impoverita, arrabbiata e fragile. Quali sono ad esempio i pericoli connessi alla continua stimolazione sensoriale e comunicativa indotta dalle tecnologie digitali? Per non rischiare di atrofizzarci in esistenze stipate di eccessi, Codignola suggerisce di imparare a fare spazio nelle nostre anime e nelle nostre menti. Perché forse non serve vivere in una botte per tornare ad avere una visione più umana, misurata ed umanistica della nostra natura relazionale.