L'uomo col ciuffo e la forza svizzera

Dalla doccia fredda del Primo agosto ai retroscena svelati dalla stampa domenicale sulla tesa telefonata tra la presidente della Confederazione Karin Keller-Sutter e l’onnipotente presidente degli USA Donald Trump. Un clima al quale le istituzioni elvetiche, da sempre propense al dialogo e alla ricerca dell’intesa, non sono abituate. A Trump invece il dialogo non interessa, lui in tutto fa valere la legge del più forte, e il più forte vuole e deve essere sempre lui. America first, o meglio, Trump first. Fatta questa premessa occorrerebbe concludere che spazi di manovra per correggere e ridurre quel folle dazio punitivo fissato, sulla base di calcoli ottusi e di parte, al 39%, è esaurito. In realtà da un ipotetico scontro con Trump non si può immaginare di ottenere nulla. Lui, ormai lo conosciamo, è affetto da una forma di irrefrenabile godimento nell’imporre la sua posizione, anche quando la ragione e persino il business suggerirebbero una via più moderata, senza fare sfoggio di un sorriso beffardo e strafottente sotto il ciuffo biondo, ma da vero statista. Ma, cara Svizzera, inutile sognare di trasformare Trump in quello che non è.
Però occorre osservare con ottimismo la situazione con la ragione e la testa che contraddistingue l’azione politica, diplomatica e amministrativa svizzera. Ai diktat non si risponde solo a muso duro, ma facendo valere i fatti e la Svizzera di ragioni ne ha da vendere. Siamo piccoli, ma non per questo deboli, non per questo degli inetti. Abbiamo un tessuto economico robusto, siamo seri e ricordiamo, tanto perché di fronte al pessimismo e al disfattismo interno contro il Consiglio federale che si sta manifestando in questo post Primo agosto s’impone ricordare, nessuno come la Svizzera ha saputo fare fronte a testa alta e senza sprofondare nei debiti da deficit a seguito della crisi pandemica di pochi anni fa. Ai partiti che fanno la voce grossa contro l’Esecutivo, tacciandolo di inettitudine per non aver ottenuto da Trump percentuali più morbide di dazi, facciamo presente che scagliarsi oggi contro chi è ancora in partita, corrisponde a schierarsi con l’uomo dal ciuffo biondo. Un vero e proprio harakiri. Difficilmente sarà Keller-Sutter a fare cambiare idea direttamente a Trump, anche solo per il fatto che mai il (presunto) macho che c’è in lui farà concessioni a una donna. Triste, ma è così in quella che si ritiene l’evoluta società americana. Forse neppure Guy Parmelin potrà essere decisamente persuasivo, ma c’è tanto lavoro dietro le quinte e per il tramite degli staff del presidente USA e la diplomazia che si può mettere in atto. Trump le spara grosse, ma talvolta si trova costretto a fare passi indietro. Era già accaduto quando, sull’onda dell’eccitazione per l’entrata in carica, aveva previsto dazi pesanti per tutti e tempistiche draconiane. Poi ha corretto la rotta, anche senza ammettere la malparata.
I giorni scorrono velocemente e la mannaia del 7 agosto è sempre più vicina. Ma guai a reagire con veemenza o a lasciarsi prendere dallo scoramento. Certamente occorrerà trattare, forse fare pure delle concessioni, promettere investimenti negli USA, ma il tutto sarà finalizzato ad un interesse superiore, quello del nostro fiore all’occhiello che si chiama export. Non possiamo permetterci di perdere il mercato USA, non possiamo permetterci sovrattasse punitive di tale portata, non possiamo subire e attendere, incrociando le dita nella speranza che l’era Trump tramonti. Il negoziato preliminare fino ad inizio luglio poggiava sulla ragione ed è stato ignorato da Trump che ha così smentito i suoi stessi collaboratori. Va ripreso il filo del buonsenso, il successo non è garantito, ma noi vogliamo crederci. Vada messo sul tavolo in maniera importante quello che è il nostro fiore all’occhiello e del quale gli USA hanno bisogno: il piccolo, ma potente, settore farmaceutico che svetta tra i top investitori nel continente americano. Dubitiamo che Washington abbia interesse a destabilizzarlo. La Confederazione ci ha abituato ad avere sempre qualche carta da giocare, quando si mette in atto un negoziato non ci gioca il tutto per tutto in maniera assoluta e sciagurata, si tiene sempre un margine per rilanciare, per ragionare. Intanto la comunicazione formale dei dazi al 39% non è ancora giunta e resta l’aggancio di quanto negoziato con altri attori: con l’UE (attenzione però a mantenere l’indipendenza elvetica e a non farsi trascinare nelle logiche di Bruxelles), ma anche con il Regno Unito.
La Svizzera, luogo di mediazione anche per conflitti ben più drammatici di questi folli dazi economici, ha sempre trovato la strada giusta grazie agli strumenti della pazienza e della mediazione, mettendo in atto, quando necessario, la determinazione, che non è una prerogativa dei forti e degli arroganti. Possiamo ancora crederci. Vogliamo ancora crederci. La negatività sarebbe la peggiore consigliera.