Non sbiadisce ed è la forza del ricordo rossocrociato

Sull’account Instagram di Philippe Senderos, nelle scorse ore, è spuntata una foto. Una foto che è anche un corridoio temporale. Lungo vent’anni. L’ex difensore tiene fra le braccia un bimbo imbronciato, che avrebbe preferito continuare a mangiare il proprio gelato invece che prestarsi allo scatto. «Bravo, mon petit Manzambi» scrive oggi Senderos, coccolando – questa volta solo metaforicamente – il gioiellino della nazionale svizzera. Da un ginevrino all’altro, da un gol che unisce passato e presente, l’immagine racconta molto della selezione rossocrociata, del suo rapporto con la Coppa del Mondo. Del suo status, anche, a livello globale. Il 16 novembre del 2005, quattro giorni dopo aver trovato la via della rete nella sfida d’andata, Senderos era in campo, al Sükrü Saraçoglu. L’inferno di Istanbul, già, con le sue pene e le sue vergogne. Quello spareggio tremendo ci ha regalato la prima di sei – sì, sei – qualificazioni consecutive alla competizione più bramata e prestigiosa. E, appunto, allora fu necessario soffrire, dubitare e, certo, avere maledettamente paura.
Sabato sera, in un incontenibile Stade de Genève, un 20.enne tanto sfacciato, quanto imbevuto di talento, il beniamino di casa, ha firmato il definitivo 4-1 contro la Svezia, consegnando di fatto alla Svizzera un biglietto per il prossimo Mondiale americano. Il sesto di fila, dicevamo. E paragonare la leggerezza e l’euforia respirate a Ginevra, a quanto accadde in Turchia un ventennio fa, beh, suggerisce bene la misura dell’evoluzione conosciuta dai rossocrociati. Per quanto da inserire in un contesto diverso, indubbiamente meno rigido in termini competitivi, i playoff per regalarsi il paradiso a questo giro li lasciamo volentieri ad altri. Agli stessi turchi, all’Italia, chissà, forse alla Germania.
La squadra di Murat Yakin, lei, non si è concessa alcun tentennamento nel breve volgere di due mesi e in un girone lungo il quale sarebbe bastato inciampare una volta per tornare a vedere i fantasmi. A Pristina, invece, si presenterà un gruppo di calciatori senza macchia. Un collettivo, sì, in cui le individualità si esaltano pure attraverso la solidarietà. La miseria di un gol in cinque partite non s’incassa per caso. Al torneo in programma in Canada, Messico e Stati Uniti, in questo senso, è lecito guardare con enorme fiducia e rinnovate aspirazioni. Alla consacrazione dei vari Xhaka, Akanji, Freuler o ancora Embolo si è sommata la personalità emergente e al contempo irrinunciabile di Ndoye. O, di nuovo, la promettente follia del citato Manzambi. Non è tutto, poiché sullo sfondo c’è altresì una generazione di 17.enni che, in Qatar, è tornata a far parlare di sé. La nazionale svizzera, detto altrimenti, è un concetto ormai duraturo, capace di perpetuarsi, nonostante limiti e concorrenza. Ieri, nelle stazioni di Losanna, Berna, Zurigo e Bellinzona, era possibile scorgere ancora decine e decine di bandierine rossocrociate, infilate nelle tasche di zaini e valigie itineranti. Emozioni pronte a trasformarsi in ricordi che non sbiadiscono. Come una foto scattata vent’anni fa.

