L'editoriale

Paradossi e rischi della guerra in Ucraina

L’empatia e la solidarietà di tutta Europa, Svizzera inclusa, e la volontà di aiutare il popolo ucraino, non sono ad oggi accompagnate da scelte strategiche e da decisioni efficaci in campo militare e politico
Paride Pelli
17.03.2022 06:00

Con oggi siamo a 22 giorni di guerra ed è arrivato il momento di fare a noi stessi una promessa. Questa: anche se il conflitto tra Russia e Ucraina dovesse perdurare nel tempo, noi non dovremo mai e poi mai abituarci ad esso. Ai feriti, ai morti, ai profughi. Come insegna il passato, purtroppo, l’assuefazione al peggio è dietro l’angolo: questo non dovrà accadere. Intanto, però, l’orrore non si ferma, al contrario cresce: così come la conta dei morti, con il numero «ufficiale» di 636 vittime civili - diffuso lunedì scorso dall’ONU - che sa tanto di involontaria fake news, perché le bombe continuano a cadere senza sosta e ogni deflagrazione porta via con sé, inevitabilmente, vite di innocenti. Le immagini che giungono dalla devastata e insanguinata Mariopoli e da altre città ucraine finite sotto assedio impressionano: non si vedono che macerie e fumo dentro uno scenario apocalittico e spettrale. Impossibile, in tale contesto bellico, mantenere un aggiornamento veritiero e costante. Questo, evidentemente, non aiuta ad elaborare una rapida via di uscita dal conflitto.

C’è un paradosso a questo proposito, e sta emergendo in maniera lampante con il passare dei giorni: l’empatia e la solidarietà di tutta Europa, Svizzera inclusa, e la volontà di aiutare il popolo ucraino, non sono ad oggi accompagnate da scelte strategiche e da decisioni efficaci in campo militare e politico. L’Occidente sta dannatamente faticando a entrare in un ruolo di mediatore. E la scelta, sostenuta da quasi tutti i Paesi della Nato, di inviare armi al Governo di Kiev per aiutarlo a difendersi dall’aggressione di Mosca, è stata di quelle davvero ambigue e forse perfino controproducenti: difficilmente, infatti, si può pretendere un cessate il fuoco immediato, o almeno un incontro al tavolo dei negoziati, se allo stesso tempo si spediscono cannoni a uno dei due Paesi in guerra. In questa escalation che nessuno riesce ad arrestare, e sembrerebbe nemmeno a rallentare, perfino le parole del Papa, che in un accorato appello ha chiesto di fermare il massacro, restano lettera morta. Parole immediatamente preda del vento, che non hanno avuto il benché minimo effetto persuasivo, la benché minima eco. Segnale che la situazione è davvero grave.

La mediazione, dicevamo. Anche qui, rispetto al passato, questa guerra ha portato alla luce alcune stranezze. Il tavolo dei negoziati, finora, è stato apparecchiato principalmente da due nazioni, oltre alla Turchia: Israele e Cina. La prima ha un forte legame con la Russia e finora non si è mai schierata completamente contro l’invasione, la seconda è vicina di casa di Mosca e fino a qualche giorno fa i suoi media istituzionali non riferivano quanto stesse accadendo in Ucraina. Due mediatori, si sarebbe detto una volta, «un po’ originali», mentre quelli che per tradizione potrebbero assumere tale ruolo, come l’Onu o, perché no, anche la Svizzera, non riescono o non possono prendere quota. Di certo, l’obiettivo di tutti è o dovrebbe essere uno solo: la tregua, e poi la pace. Il rischio che il conflitto diventi endemico, come lo è stato in Donbass dopo l’apertura delle ostilità nel 2014, è una possibilità, ma questa volta si deve fare tutto il possibile per scongiurarla. Se la guerra perdurasse, infatti, uscirebbe dalle prime pagine dei quotidiani, relegata in fondo ai telegiornali e solo in caso di eventi drammatici, e come accade per altre guerre lontane che si continuano a combattere nell’indifferenza generale, si finirebbe per farci l’abitudine, addirittura ce la si scorderebbe. L’Occidente, mediatore stanco e indeciso, dovrebbe almeno promettere che questo non accadrà.  

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