L'editoriale

Quanto pesa la corona di Carlo?

Oggi un sovrano anziano, divorziato (il primo dai tempi di Enrico VIII) e perseguitato dal fantasma della prima moglie , si ritrova a guidare un regno in piena crisi, non solo economica e politica ma perfino di identità
Antonio Caprarica
06.05.2023 06:00

Settant’anni fa, al momento dell’incoronazione di Elisabetta II, un terzo degli inglesi si dicevano convinti che a metterla sul trono fosse stato direttamente Dio. Oggi solo un terzo dei sudditi si dice interessato all’incoronazione del figlio Carlo III, al resto – stando ai sondaggi – interessa poco o niente affatto. Nel 1953 , in un dopo guerra ancora segnato da penuria e povertà, gli inglesi che avevano appena perso l’impero acclamavano entusiasti una regina giovane e bella che sembrava emanare la luce della speranza. Oggi un sovrano anziano, divorziato (il primo dai tempi di Enrico VIII) e perseguitato dal fantasma della prima moglie , si ritrova a guidare un regno in piena crisi, non solo economica e politica ma perfino di identità.

Sarà un peso ben più grave dei due chili e trecento grammi della corona di Sant’Edoardo che l’arcivescovo di Canterbury porrà oggi sulla testa di Carlo. Ma questi cupi pensieri resteranno fuori dalle porte di Westminster Abbey. È dagli inizi del Novecento, con l’accessione al trono di Edoardo VII (trisavolo di Carlo III) , che la Corona inglese privata di ogni potere politico è diventata soprattutto una «monarchia cerimoniale». Ori, fanfare, carrozze, cavalli e cannoni: «pomp and circumstance», come la chiamano i britannici, ovvero la pompa magna rappresenta da un più di un secolo il vero business della dinastia. Che su questo terreno non ha rivali nell’universo mondo.

Lo stesso kolossal in technicolor allestito per oggi a uso dei sudditi e delle tv planetarie è ormai unico nel panorama delle residue monarchie (che sono più di quante si pensi). Nessun sovrano costituzionale viene più incoronato da un’autorità religiosa che lo investe di una funzione semi-divina . Per miliardi di spettatori lontani si tratta solo di uno spettacolo tanto più affascinante quanto più anacronistico. Ma per il diretto interessato, come per i suoi sostenitori più convinti sull’isola, quella che si consuma stamane sotto le volte gotiche dell’abbazia di Westminster è di nuovo – per la quarantesima volta in mille anni – l’unione mistica tra sovrano e popolo alla presenza stessa di Dio.

Il fatto che un rito di origine e stampo medievali continui a ripetersi in pieno Ventunesimo secolo sulle rive del Tamigi è una conferma non solo dell’«eccezione inglese» ma anche dell’eccentricità che siamo soliti attribuire al carattere nazionale degli isolani. Questa specifica «eccentricità» appare tuttavia paradossale nel paese più scristianizzato d’Europa, dove non più di un milione di fedeli anglicani entrano in una chiesa una volta al mese. Eppure, una cerimonia interamente intessuta di simbolismo cristiano, a cominciare dall’unzione con il crisma benedetto a Gerusalemme, si offre ancora oggi come base di legittimità e fonte di autorità della principale istituzione nazionale. Sua Maestà Carlo III.

Davanti a questa pretesa un osservatore laico avrebbe buone ragioni di sollevare perplesso il sopracciglio. Soprattutto considerata la pregressa condotta, poco in armonia con i precetti cristiani almeno in materia coniugale, della coppia di sovrani consacrata stamane a Westminster. Ma dopo tutto, il cristianesimo è perdono, e a quanto pare la maggioranza degli inglesi ha ampiamente perdonato i due ex adulteri. Più che sulle colpe passate, l’attenzione dei sudditi si concentra ora sull’effettiva capacità di Carlo di rappresentare una guida per il paese. Nell’Ottocento, il costituzionalista Walter Bagehot scrisse, ai tempi della grande Vittoria, che «siamo arrivati a considerare la famiglia reale come la pietra di paragone della nostra moralità». Escludendo che possa valere oggi anche per Carlo e Camilla, qual è allora l’utilità della coppia per il futuro del regno?

Nessuna, è la risposta di quel 20 per cento di repubblicani che continuano una battaglia all’apparenza vana. Perché la stragrande maggioranza degli inglesi pensa il contrario. Per quanto il sostegno popolare al trono possa assottigliarsi, nessuno contesta che un buon sessanta per cento dei sudditi , stando ai sondaggi, sostiene la monarchia come fattore di stabilità e strumento di softpower britannico nel mondo intero. Il trono non sarà più, come scriveva nel Settecento il grande teorico Edmund Burke , «il fascio di luce che attraversa l’oscurità dei secoli». Ma resta la garanzia di valori, credenze , perfino di un carattere nazionale che in un millennio hanno formato per accumulo l’ordine costituzionale che vive anche nel presente. Monarchia inclusa.

«Che cosa preferisce avere la gente?», si è chiesto retoricamente Michael Nazir-Ali, ex vescovo anglicano di Rochester, a proposito dell’incoronazione. «Un servizio religioso pieno di saggezza e simbolismo originati da una storia condivisa o una cerimonia secolare meramente formale e vuota di tutto?». È un interrogativo denso di implicazioni, e non solo per l’Inghilterra. Peccato che la risposta rischi di identificarsi soltanto con gli indici di ascolto televisivi.

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