L'editoriale

Se anche la storia diventa social

Ormai più che tra apocalittici e integrati sembra quasi un confronto tra ragionevoli e rassegnati
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
26.11.2022 06:00

Ormai più che tra apocalittici e integrati sembra quasi un confronto tra ragionevoli e rassegnati. Mentre telefonini sempre più potenti (e meno telefoni) si sono trasformati in elementi di distorsione della realtà con cui filmiamo qualsiasi cosa e più filmiamo più la realtà ci sfugge facendoci perdere le connessioni tra il virtuale e il reale, in una totale diseducazione tecnologica che spesso si traduce anche in maleducazione civica, l’ingenuo ottimismo tecno-democratico nato con Internet e pompato dalla dittatura dei social dei «mi piace» e del «condividi», ormai non incanta più nessuno e sembra da tempo morto e sepolto. Anzi, sono sempre più numerosi gli esperti (buon ultimo l’insigne psicologo americano Jonathan Haidt in un lungo recente articolo su The Atlantic) che, con fior di argomenti, dimostrano come gli ultimi logoranti dieci anni di like e ritweet tra polemiche, bullismi e sistematica disinformazione online ci abbiano reso semplicemente «più stupidi» (sic) con gravi conseguenze sull’essenza della stessa società democratica. Un po’ tutti alla fine danno dunque ragione alla lucida analisi di Umberto Eco del 2015: «I social danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli». 
E c’è poco da consolarsi se il promesso nuovo umanesimo della conoscenza universale alla portata di tutti, a furia di meccanismi di supervisione comunitaria e pubblica delle informazioni negli anni abbia partorito soltanto negletti spazi di scambio e apprendimento come Wikipedia. Un enciclopedico luogo virtuale, utilissimo e apprezzabile per carità, anche perché è probabilmente l’esperimento più vicino a quel sapere esteso e disponibile per tutti sognato dagli illuministi nel Settecento. Se solo avessimo imparato a considerarlo e a farne uso per quello che è: uno spunto di partenza e non un superficiale punto di arrivo, insopportabilmente tedioso e appagante una volta giunti alla terza riga di fugace lettura. Così assordati dal chiasso molesto di pochi leoni da tastiera che, tra versi e metaversi, silenziano una maggioranza esausta e remissiva, nell’universo digitale non resta molto spazio per la discussione e per il confronto ma solo una sempre più brutale divisione fra ignoranti prepotenti e rassegnati passivi. Con buona pace di alcune branche della conoscenza persino più martoriate di altre. Non serve infatti idolatrare studiosi come Henri Pirenne, Marc Bloch, Johan Huizinga o Basil Henry Liddell Hart per accorgersi di quanto la Storia, intesa anche come «mentalità storica» diffusa, stia uscendo a pezzi da quando Facebook, Twitter, Instagram e TikTok sono diventate corrosive arene pubbliche di discussioni muscolari in cui il passato fa capolino di continuo. Nella maniera peggiore ovviamente. Come spiega l’ottimo Francesco Filippi nella sua utilissima Guida semiseria per aspiranti storici social (Bollati Boringhieri) mettendo in luce tutte le storture del discorso storico online e delineando, in una sorta di decalogo correttivo, assurdità, pericoli e incongruenze di buona parte del chiacchericcio effimero della Rete. Perché la Storia in salsa digitale quasi sempre è mero sinonimo di rissa verbale in cui l’impegno dei contendenti, persino quando si tratta di esperti autentici o di autorevoli accademici, non si focalizza sul conoscere ma sul vincere, meglio ancora se umiliando l’avversario a colpi di like. Un confronto/scontro da cui si impara poco o nulla perché l’obiettivo finale è quello di distruggere l’interlocutore. Ovvia allora la preoccupazione dell’autore per quanto l’impatto dei social stia dunque pesando sul modo di considerare e interpretare la Storia, modificando nel sentire comune il nostro rapporto tra il passato e la sua rappresentazione attuale. La soluzione di Filippi, saggiamente consapevole che oggi, ci piaccia o meno, è attraverso i social che si forma una parte consistente dell’opinione pubblica, è in definitiva molto ambiziosa e mira ad una futura corretta fruizione collettiva del mondo virtuale. Forse, per ora, basterebbe disconnettersi ogni tanto e tornare a dilettarsi di Storia con qualche buon libro. Di quelli di carta.