L'editoriale

Se il Dio algoritmo livella il pensiero

Dietro l’epica un po’ ingenua dei nerd genialoidi che creano la rivoluzione digitale in un garage californiano per il bene dell’umanità, appare chiaro da tempo che la nostra dipendenza da un telefono connesso cela lunghi e approfonditi studi sulle dinamiche del cervello umano e sui meccanismi che regolano i nostri comportamenti sociali e individuali
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
05.04.2024 06:00

La maschera è ormai caduta. Dietro l’epica un po’ ingenua dei nerd genialoidi che creano la rivoluzione digitale in un garage californiano per il bene dell’umanità, appare chiaro da tempo che la nostra dipendenza da un telefono connesso cela lunghi e approfonditi studi sulle dinamiche del cervello umano e sui meccanismi che regolano i nostri comportamenti sociali e individuali. Come ha dimostrato l’attento esperto di tecnologie Juan Carlos de Martin, «lo smartphone è una macchina che è stata esplicitamente progettata, anche con l’apporto di neuroscienziati e di psicologi, per creare dipendenza». Nulla di criminale beninteso, se non fosse che, per l’interesse economico di pochi, oggi, archiviato il sogno di un nuovo umanesimo e di un mondo più giusto, pacifico e istruito, ormai nessuno pensa di fare a meno del telefono per giocare, socializzare, lavorare, stare in società e che dunque nel giro di un paio di decenni lo smartphone ha assunto la funzione di accesso a tutto; tanto che ci possiamo chiedere se il telefono connesso non sia letteralmente un’estensione fisica delle persone in carne e ossa. Estensione sensoriale, visiva, uditiva e tattile, attraverso la quale percepire e fare esperienza della realtà, del mondo che ci circonda, degli altri esseri umani e di noi stessi anche nei meccanismi dei ricordi e della memoria.

Ma se gli effetti catastrofici per le persone e per la società di un simile «progresso involutivo» si manifestano con sempre maggiore evidenza tanto che a più livelli si pongono degli interrogativi urgenti soprattutto per le nuove generazioni (È giusto dipendere così tanto da un unico oggetto? Deve per forza essere fatto così com’è oggi? Non sarebbe ora di fare davvero quello che vogliamo fare col telefono e non quello che il telefono vorrebbe facessimo con lui?) ancora poco studiato è l’impatto della tecnologia digitale, di internet e dei social media sulla cultura e sullo sviluppo del pensiero e della conoscenza. Ne traccia un quadro puntuale e desolante il saggista e giornalista del New Yorker Kyle Chayka nel saggio Filterworld. Come gli algoritmi hanno appiattito la cultura appena uscito anche nella nostra lingua con la traduzione di Sara Meddi grazie alle giovani e mai banali Roi Edizioni. Un viaggio attraverso gli algoritmi e le loro implicazioni culturali che racconta e documenta il modo in cui questi meccanismi digitali guidano la nostra attenzione, le nostre scelte e modellano gran parte delle nostre esperienze, online e offline, nel mondo reale.

Concludendo che il dio algoritmo prende decisioni per noi, inducendoci in uno stato di passività in cui non capiamo cosa consumiamo, cosa scegliamo o cosa realmente ci piace davvero. E così, distruggendo il senso critico, i gusti e le estetiche individuali, tutto ciò che possiamo definire come «cultura» si omologa, si livella e si uniforma ad un prodotto preconfezionato, ragionevolmente redditizio per le piattaforme social e perfettamente «instagrammabile». Soffocando ogni eccentrico guizzo di genio, ogni peculiarità locale, ogni scelta personale e ogni spunto che non si conformi al modello predefinito da una fantomatica intelligenza artificiale programmata per far soldi mostrandosi piacevolmente omogenea, confortevole, mai faticosa e illusoriamente accessibile, replicabile, partecipativa e diffusa, il modello di «Filterworld» mira dunque ad una definitiva globalizzazione algoritmica che annienterebbe qualsiasi significato e specificità della cultura per come l’hanno concepita finora le società libere e democratiche.

Con un’unica, secondo Chayka, possibile via di uscita: essere coscienti delle dinamiche e degli scopi che regolano la religione del dio algoritmo, cominciando così a scegliere di nuovo responsabilmente ciò che consumiamo, anche in ambito culturale. Un po’ quello che Umberto Eco diceva parlando di televisione e di comunicazione di massa: «La macchina c’è, ora è importante imparare ad essere liberi rispetto alla macchina».