L'editoriale

Su Gaza lasciar parlare i contenuti

Non conosciamo nessun festival del cinema di grandi o di medie dimensioni che ad ogni edizione non sia accompagnato da corroboranti polemiche: anche a questo giro Locarno sta facendo la sua parte
Paride Pelli
11.08.2025 06:00

Non conosciamo nessun festival del cinema di grandi o di medie dimensioni – da Cannes a Venezia, da Berlino a Locarno – che ad ogni edizione non sia accompagnato da corroboranti polemiche. La settima arte, d’altronde, ha sempre e giustamente provocato infinite discussioni politiche, culturali e sociologiche. E, sostanzialmente, va bene così. Anche a questo giro Locarno sta facendo la sua parte. Prima dell’inaugurazione c’era stata la polemica sulla sostituzione dello schermo gigante in piazza Grande ma, detto tra noi, si è trattato di una querelle squisitamente locale, che infine si sta risolvendo, come da previsioni, in modo indolore. Negli ultimi giorni, invece, con la kermesse già in fase di accelerazione e pienamente sotto i riflettori internazionali, l’aria si è fatta un poco più opprimente, poiché sul palco del Pardo è entrata di peso la tremenda questione della catastrofe umanitaria a Gaza.  

A far discutere gli spettatori e i rappresentanti della politica sono state alcune iniziative come la distribuzione di cartoline con immagini delle vittime dei massacri di Gaza e un flashmob, a cui si sono aggiunte le parole di solidarietà espresse in più occasioni sul palco dal direttore artistico Giona A. Nazzaro. In linea generale, c’è stata una troppo pervasiva presenza del tema Gaza all’interno di serate dedicate al cinema e alla proiezione di non pochi capolavori.   

Da una parte, è più che giusto i fatti della Striscia non vengano accantonati. Sarebbe un inconfutabile segnale di disumanità e getterebbe persino un’ombra sul festival. Dall’altra, però, non bisognerebbe mai dimenticare che l’efficacia di una denuncia passa sempre attraverso l’equilibrio e i mezzi con cui viene espressa. E qui possiamo fare un primo appunto alla conduzione della kermesse sotto la presidenza di Maja Hoffmann, con uno staff che deve imparare a comunicare meglio verso l'esterno, prevedendo o comunque intercettando per tempo potenziali controversie. Il Festival ha tutto il diritto di esprimere posizioni politiche e geopolitiche, sia chiaro, ma deve farlo con l’autorevolezza e gli strumenti che ha saputo conquistare in decenni di assiduo lavoro: in altre parole, sarebbe molto meglio lasciar parlare i contenuti. Ovvero, i lungometraggi, i documentari, le retrospettive, tutto in un’ottica di dialogo e di pluralismo.  

Sappiamo bene che nel programma del festival sono stati inseriti con buon bilanciamento film palestinesi, israeliani e libanesi, ed è già molto. Se si voleva lanciare un messaggio politico ancora più potente, nulla vietava di proporre una rassegna parallela dedicata solo ai registi e alle tragedie di Gaza e della Cisgiordania. Gran parte degli spettatori sarebbe stata d’accordo e avrebbe persino aumentato la propria conoscenza della complessa questione palestinese. Il festival stesso ne sarebbe uscito in continuità con la sua storia di kermesse un po’ alternativa ma allo stesso tempo preziosa e propositiva sul piano cinematografico. Sono decisioni culturali (certo prese con soldi pubblici, ma da questo punto di vista se ne prendono di continuo anche nel resto dell’anno in altri settori della cultura) e sarebbero state, alla fine, rispettate.  

Quello che invece non convince e non piace fin qui sono certi endorsement extra-programma, che rischiano di trasformare Locarno in un festival «di Gaza» e non «del cinema». E qui, persino gli sponsor avrebbero da storcere il naso.  E questo sia detto, ça va sans dire, con tutto il rispetto verso l’immane tragedia in corso nella Striscia, che di tutto avrebbe bisogno fuorché di tifosi.  

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