L'editoriale

Tra veti e dazi alla Cina l'auto elettrica non decolla in Europa

La transizione dal motore endotermico a quello elettrico sta mettendo in difficoltà l'automotive europeo, in particolare Volkswagen e Stellantis
Generoso Chiaradonna
04.10.2024 06:00

L’immagine più potente della svolta energetica e del processo di decarbonizzazione avviato dall’Unione europea viene paradossalmente da un paese che ha deciso di uscirne. La scorsa settimana è stata infatti chiusa la centrale elettrica di Ratcliffe-on-Soar, l’ultima ancora attiva in Gran Bretagna completamente a carbone. Gli applausi e le lacrime degli operai che rimarranno ancora qualche anno alle dipendenze della società per smantellare ciò che rimane, hanno sottolineato l’evento epocale. In pochi minuti le colossali torri di raffreddamento che hanno caratterizzato il paesaggio di quella zona hanno smesso di sbuffare.  La Gran Bretagna fu il primo paese al mondo, nel 1882, ad aprirne una. Oggi è la prima economia del G7 ad averle rottamate tutte. Può permetterselo perché negli ultimi due decenni è stato uno dei paesi che ha investito di più nell’energie rinnovabili, soprattutto nell’eolico offshore e non ha intenzione di uscire – come hanno fatto altri – dall’energia di fonte nucleare. Fonte, quest’ultima, riabilitata a livello europeo e inserita tra quelle ritenute pulite. Fatto opinabile con cui però bisognerà obtorto collo fare i conti, se l’obiettivo ultimo è la riduzione delle emissioni di CO2, prima causa dei cambiamenti climatici.  

L’Europa, intesa quale Unione europea, si è data un altro obiettivo ambizioso: la fine delle vendite di veicoli nuovi con motori a combustione interna (a benzina o diesel) e la completa elettrificazione della mobilità entro il 2035. Un obiettivo che rientra nel più ampio piano definito dalla Commissione europea “Fit for 55” che mira ridurre le emissioni di CO2 del 55% entro il 2030. Alcuni Stati vanno addirittura oltre. La Norvegia estrattrice di petrolio, per esempio, che non è membro dell’UE ma aderisce allo Spazio economico europeo, ha già fissato per il 2025 il termine entro il quale sarà vietata l’immatricolazione di auto nuove a combustione interna. Anche il Regno Unito è su questa lunghezza d’onda avendo anticipato al 2030 come data limite per le auto a benzina o diesel. Ha lasciato una deroga al 2035 per le ibride.  

Negli Stati Uniti, per rimanere nel novero dei Paesi occidentali, pur non avendo messo una data di scadenza ai motori endotermici, a livello statale c’è chi ha adottato leggi, come la California, che vietano la vendita di auto con motori endotermici entro il 2035. L’amministrazione Biden, inoltre, ha stanziato ingenti risorse pubbliche per incentivare l’acquisto di veicoli elettrici e la costruzione dell’infrastruttura di ricarica. Insomma, sulla carta la strada per l’elettrificazione della mobilità privata sembra essere tracciata e in modo irreversibile. Altre vie per ridurre le emissioni di CO2 non sono contemplate. I conti però sono stati fatti senza l’oste, ovvero senza le case automobilistiche che non sempre con la dovuta lungimiranza, hanno adeguato gli investimenti al nuovo mondo. 

Il caso di Volkswagen e Stellantis (FCA e Peugeot) sono emblematici. La domanda di veicoli elettrici senza più forti sussidi pubblici non cresce come auspicato e mette in difficoltà tutto il settore dell’automotive europeo. In mezzo, oltre a una crisi sanitaria globale che ha rallentato la produzione ci si è messa anche una contesa commerciale tra gli USA e Cina proprio sulle tecnologie per i veicoli elettrici. Il paradosso è che l’americana Tesla, pioniera nella diffusione massiccia delle auto elettriche, ha fatto scuola e ha trovato proprio nei cinesi gli emuli migliori che hanno innovato e ridotto tantissimo i costi di produzione. I modelli di auto cinesi sono economici e ritenuti validi dagli esperti. Veti, dazi e lotte per la supremazia tecnologica e militare ne impediscono una maggiore diffusione in Occidente e rallentano gli obiettivi di emissione di CO2 che l’UE si è imposta. 

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