L'editoriale

Tre eredità, una grande svolta storica

La Chiesa sorprende sempre: noi laici cadiamo inevitabilmente nell’errore di applicare alla scelta di un Papa le fruste e logore categorie della politica
Ferruccio de Bortoli
Ferruccio de Bortoli
10.05.2025 06:00

La Chiesa sorprende sempre. Noi laici cadiamo inevitabilmente nell’errore di applicare alla scelta di un Papa le fruste e logore categorie della politica. La Sistina non è un’aula parlamentare. Il Papa sarà anche un capo di Stato, ma è soprattutto un leader spirituale. La monarchia è assoluta (e forse adesso lo sarà meno) ma non ereditaria. Anche chi non crede all’elezione di un pontefice come opera dello Spirito Santo, deve riconoscere l’esistenza di uno “soffio creatore”, di qualcosa di soprannaturale o perlomeno di incomprensibile. Perché altrimenti non si spiegherebbero tante inaspettate virtù. Il Conclave è durato pochissimo. I contrasti superati di slancio. L’arte del compromesso esercitata con raffinata sapienza. Le coalizioni tessute con ispirata maestria. Il segreto aiuta.

Papa Leone XIV sembra riassumere su di sé l’eredità di tre pontefici dei quali si è ben guardato di prendere il nome. Se il polacco Wojtyla fu una spina nel fianco dell’Oriente comunista, fino a disgregarlo, un americano di nascita (non trumpiano) può avviare una profonda riflessione sull’identità capitalista occidentale, dagli esiti inimmaginabili. Una scossa benefica a democrazie rese fragili, impaurite, chiuse. Degli altri due predecessori Papa Prevost, a giudicare dalle prime mosse, sembra più incline a raccogliere l’eredità del teologo Ratzinger. A riportare il “cammino della Chiesa” lungo i sentieri dell’ortodossia, del rispetto della dottrina. A ripristinare alcuni principi non negoziabili. Non dirà mai, come Francesco: «Chi sono io per giudicare?». Bergoglio però aveva riavvicinato la Chiesa alla contemporaneità, l’aveva rimessa sul sentiero della Storia, dandole un volto più umano e meno austero, popolare se non populista. Leone XIV (c’eravamo scordati dei numeri romani) non lascerà cadere questa preziosa eredità evangelica. La interpreterà a modo suo. Ha scelto di chiamarsi Leone come il Papa che fondò la dottrina sociale della Chiesa per rispondere alle istanze operaie e rivoluzionarie. Il nome di un predecessore che scomunicò un agostiniano come lui: Lutero.

«Dio ci ama tutti» ha detto giovedì dalla loggia centrale della basilica di San Pietro. E bisogna parlare con tutti per fare quella pace insistentemente richiamata con un discorso letto con grande abilità oratoria. Tutto va preparato. L’improvvisazione è bella, simpatica, ma non deve essere eccessiva. I simboli non sono relitti dell’opulenza ecclesiastica, ma testimonianze delle Scritture. E Prevost è tornato a indossare mozzetta e stola. Come Benedetto XVI. 

Due fronti e una sfida, grandissima. Il fronte internazionale, come costruttore di ponti per dare concretezza alla via bergogliana della pace. Quello interno, ovvero una Chiesa da rimotivare più che da riformare (tanti i cantieri lasciati aperti). La sfida più grande l’ha lanciata ieri, con l’omelia durante la messa, alla Sistina, nella quale ha respinto come atea una certa venerazione superomistica di Gesù. Chi crede è spesso deriso, ma la «mancanza di fede porta con sé drammi come la perdita del senso della vita, la violazione della dignità della persona». Sono tanti i luoghi del mondo che hanno bisogno di missionari. E chiunque eserciti un ministero deve farsi piccolo «perché rimanga Cristo». Il successore di Pietro è «un fedele amministratore» nella carità della Chiesa. Il Papa ha citato sant’Ignazio di Antiochia, che venne portato in catene a Roma e sbranato dalle belve. Per un Papa che si chiama Leone è un programma di un certo coraggio.