Trump e la pace attraverso la forza

Nella terra, per noi santa, dove il sorriso sembrava scomparso per sempre, sommerso da un dolore infinito, abbiamo visto ieri tante espressioni di gioia. Tra le famiglie che hanno riabbracciato i propri cari, dopo due anni di feroce rapimento, e anche tra la popolazione di Gaza, non più oggetto della disumana reazione militare israeliana al 7 ottobre del 2023. Quello che accade in queste ore - se si hanno a cuore i destini dell’umanità e qualunque cosa si pensi delle responsabilità di quella tragedia infinita - deve essere salutato come un successo della politica e della diplomazia. I compromessi, per quanto fragili e indigeribili, possono ancora far tacere (si spera a lungo) le armi. Esiste ancora uno spazio negoziale sottratto all’opzione militare che appariva di una prepotente ed esclusiva attualità. Il messaggio di speranza è universale e lambisce i tanti, troppi teatri di guerra sparsi per il mondo. Arriva persino sul fronte della martoriata ucraina. «Metti via la spada» ha detto Leone XIV nel rosario di ieri in piazza San Pietro. «Abbiate l’audacia del disarmo», ha aggiunto. Non c’è ancora. Ma uno spiraglio si è aperto. E non è poco.
Emergono però i primi distinguo, le prime sottili prese di distanze in una giornata che passerà comunque alla storia. Non è facile, per i democratici americani come per la sinistra europea, riconoscere i meriti di Trump. Ma la tregua in Medio Oriente, piaccia o no, è il prodotto della politica spregiudicata, nelle forme e nella sostanza, dell’amministrazione americana. Cioè l’applicazione, per certi aspetti brutale, dello slogan della «Pace attraverso la forza». Un altro presidente, per esempio Joe Biden o anche Baraq Obama, non sarebbe mai riuscito a domare, in questo modo, uno stretto alleato divenuto scomodo come Netanyahu. Va detto con sincerità. Alcuni tratti della personalità di Trump, che continuano a non piacerci e inquietarci per la tenuta della democrazia americana, sono stati in questo caso preziosi, essenziali.
Il punto di svolta è stato il bombardamento israeliano a Doha, nel Qatar, per colpire Hamas. Trump ha costretto Netanyahu a scusarsi, ad ammettere, con quella telefonata partita dalla Casa Bianca, di essersi sbagliato, di aver superato una sottile e invisibile linea rossa. E, soprattutto, di aver messo in pericolo l’alleanza statunitense con il mondo sunnita. Il capo della Casa Bianca ha costretto il governo israeliano a fare i conti con la realtà di un isolamento internazionale divenuto insopportabile e che ora appare ridotto se non addirittura stemperato. Anche la figura del capo del governo israeliano, che continua ad avere tutte le sue responsabilità per il massacro di Gaza, se non rivalutata, è giudicata sotto una luce diversa. Al punto che il presidente americano ha chiesto al suo omologo israeliano, Herzog, di graziarlo per il processo cui è sottoposto.
Ed è curioso notare come persino il tanto disprezzato conflitto d’interesse personale - tanti gli affari aperti in quell’area - abbia avuto la sua positiva influenza nello spingere le parti al compromesso. Trump ha potuto affermare - rivolgendosi anche al genero Jared Kushner, fondamentale nella trattativa per il cessate il fuoco - che ora la pace si trasformerà in un gigantesco business. I difetti della «presidenza imperiale» americana, nella circostanza tragica del conflitto a Gaza, si sono trasformati in occasionali virtù. E la cerimonia di Sharm el-Sheikh, come l’intervento alla Knesset, è stata una celebrazione che forse vale più di un Nobel. Molti gli ospiti, soprattutto europei. Ridotti però a semplici spettatori.

