Trump, l’arte del dazio e il caos calcolato

Liberation Day, l’aveva chiamato così. Il 2 aprile, dal Giardino delle Rose della Casa Bianca, Donald Trump, ex e attuale presidente, aveva lanciato la sua crociata globale per riequilibrare il commercio internazionale e, soprattutto, per colmare gli enormi disavanzi delle partite correnti da una parte e del bilancio fiscale dall’altra.
La risposta? Dazi per tutti, amici e nemici, con l’unica eccezione - curiosa, ma forse non troppo - della Russia, con la scusa che, a causa delle sanzioni internazionali, gli scambi commerciali tra i due Paesi si sono ridotti ai minimi termini. Da allora, «America First» non è più solo uno slogan: è una barriera doganale. Sotto il profilo mediatico, un colpo da maestro. Sotto quello economico, una scommessa dal sapore autolesionistico.
Trump è tornato da poco più di tre mesi alla Casa Bianca e ha ripreso da dove aveva cominciato: tariffe doganali a colpi di ordini esecutivi. Nel 2018 aveva dato il via alla sua guerra commerciale con la Cina. Quest’anno ha alzato il tiro, senza nemmeno fingere di distinguere tra alleati strategici e rivali geopolitici. L’Unione europea? 20%. Il Giappone? 24%. La Cina? Un netto 34%, subito ritoccato - in risposta alle ritorsioni di Pechino - al 145%.
Più che una strategia, una performance. E come ogni performance attoriale - Trump è pur sempre un uomo anche di spettacolo, per anni è entrato nelle case degli americani con un celebre show televisivo - conta il palcoscenico: l’elettorato interno. È lì che Trump gioca davvero. Il lavoratore della Rust Belt, l’agricoltore dell’Iowa, l’operaio dell’industria automobilistica: tutti devono vedere in lui l’uomo forte che protegge l’industria americana.
Le reazioni sono state immediate. I mercati azionari hanno tremato, gli alleati hanno protestato, le diplomazie hanno ricominciato a muoversi. Dopo una settimana di caos programmato, Trump ha fatto marcia indietro: sospensione di 90 giorni per tutti, tranne che per la Cina. Non una rinuncia, aveva detto, ma una mossa per negoziare «da posizione di forza». Lo schema è lo stesso del passato e adottato anche dal Trump imprenditore: creare il problema, gestire il caos, poi rivendicare il compromesso come una vittoria. Il tutto con una comunicazione che trasforma le mosse tattiche in trionfi storici. È un gioco di specchi, ma funziona. Almeno per un po’.
Ed eccoci a Ginevra, dove lunedì di questa settimana, sotto l’ombrello dell’Organizzazione mondiale del commercio e con la mediazione svizzera, è andato in scena l’ennesimo riavvicinamento tra Stati Uniti e Cina. Dazi reciproci ridotti - 30% da parte americana, 10% da parte cinese - per 90 giorni. Un’apertura, sì, ma fragile. E, soprattutto, nulla di paragonabile a una vittoria diplomatica. Trump lo presenta come la dimostrazione che la sua strategia funziona. Ma chi conosce i meccanismi della diplomazia commerciale sa bene che queste «finestre di tregua» servono a prendere fiato, non a cambiare le regole del gioco. Né Pechino né Washington hanno modificato le proprie posizioni strutturali. È solo una pausa, non un trattato.
Il bilancio della guerra dei dazi del presidente Donald Trump è quindi, al momento, negativo per gli Stati Uniti in termini economici, con una lieve - lo ricordiamo - contrazione del PIL (-0,3%), una forte volatilità dei mercati finanziari e comunque un aumento del deficit commerciale. La Cina, pur subendo pressioni, mantiene però una posizione di forza geopolitica, non avendo ceduto alle richieste americane e avendo dimostrato di poter rispondere con una strategia commerciale eguale e contraria. L’Europa, nel frattempo, oscilla tra minacce di ritorsione e tentativi malcelati di riaprire il dialogo, ben consapevole che le frizioni con Washington non convengono a nessuno.