L'editoriale

Un'Unione Europea separata all'interno

Ci si può separare anche restando uniti: al voto del Parlamento europeo, che condanna l’Ungheria definendola «un regime ibrido di autocrazia elettorale», ha fatto seguito la decisione della Commissione di sospendere l’erogazione di fondi comunitari a favore di Budapest
Ferruccio de Bortoli
Ferruccio de Bortoli
21.09.2022 06:00

Ci si può separare anche restando uniti. Al voto del Parlamento europeo, che condanna l’Ungheria definendola «un regime ibrido di autocrazia elettorale», ha fatto seguito la decisione della Commissione europea di sospendere l’erogazione di fondi comunitari a favore di Budapest. Trattati e regolamenti condizionano i versamenti al rispetto dello stato di diritto. Budapest ha da tempo ristretto i margini di libertà, non solo della stampa, e ridotto l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. C’è un paradosso. Sul piano dei valori condivisi, le differenze con l’Ungheria di Orbán e i suoi partner nell’Unione non sono nemmeno confrontabili con quelle che hanno portato alla Brexit. Eppure il Regno Unito, patria della democrazia, è fuori; il regime di Orban, e i suoi tanti seguaci, dentro. Con simpatie addirittura crescenti. Lega e Fratelli d’Italia, che si candidano a governare il Paese, hanno votato contro la risoluzione del Parlamento europeo, suscitando però la reazione negativa dell’europeista Silvio Berlusconi. Forza Italia, l’altro grande partito della coalizione di centrodestra, aderisce al Partito popolare europeo, di cui fa parte la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen. L’Ungheria è tutt’altro che isolata. Anche la Polonia governata da Diritto e Giustizia, il partito di Jaroslaw Kaczynski, si distingue per un nazionalismo illiberale. È stata oggetto di procedure europee d’infrazione, ma oggi gode di una sorta di sospensione per il suo ruolo sul fronte ucraino. C’è lo stato di diritto ma anche la ragion di stato.

Il consenso a governi e partiti su posizioni nazionaliste e sovraniste è in aumento. Le recenti elezioni politiche svedesi ne sono la prova. Nella patria della socialdemocrazia scandinava, nel Paese cui spetterà il prossimo turno di presidenza dell’Unione, la prima premier donna, Maddalena Andersson – che tra l’altro aveva appena firmato l’adesione di Stoccolma alla Nato – si è dimessa. La vittoria è andata alla coalizione di destra. I Democratici di Jimmie Akerson, a dispetto del loro nome, non fanno mistero di nutrire simpatie neonaziste. Hanno ottenuto un successo inaspettato e rilevante. La memoria del Novecento è assai labile anche a latitudini elevate. In realtà basta leggere il manifesto della destra europea sul futuro dell’Unione, firmato da 14 partiti, tra cui il Rassemblement Nationale di Marine Le Pen, gli spagnoli di Vox, l’austriaca Fpó, i belgi di Vlaams, gli olandesi di JA21, i danesi del Dansk Folkeparti, i Veri finlandesi, oltre che da Lega e Fratelli d’Italia e dai loro alleati ungheresi e polacchi, per rendersi conto di quanto la storia sia stata rivista ed emendata. Tutti contro il «super stato» europeo, rivendicano competenze nazionali inviolabili. Denunciano giustamente le sofferenze patite dalle nazioni dell’ex blocco sovietico, ma ignorano quasi del tutto quelle causate dal nazismo e dal fascismo. Cioè dai nazionalismi del Novecento.

Il disagio sociale rafforza i loro consensi un po’ ovunque. La globalizzazione disordinata ha colpito soprattutto i ceti medi e le classi lavoratrici. Crisi economiche ravvicinate, con l’esplosione dei costi dell’energia, hanno allargato l’area della povertà. L’immigrazione è vissuta come una minaccia alle identità nazionali. L’Unione Europea ha dato una risposta adeguata alla pandemia. Ma fatica a trovare un accordo per proteggere le famiglie più esposte all’inflazione. Tassa subdola, ingiusta e regressiva. La crescita del sentimento popolare di non appartenenza ai valori dell’Unione è assai più grave della Brexit, che tanti pentimenti nel Regno Unito continua a sollevare.