Violenza giovanile, un problema culturale

Riguardo all’insensata esplosione di violenza dello scorso fine settimana a Lugano, si stanno accumulando numerose ipotesi per tentare di comprenderne la causa, se non addirittura per minimizzare, in qualche modo, i fatti stessi. Ne abbiamo sentite di ogni tipo: è estate e alcuni giovani sono troppo liberi e annoiati, era un giorno di festa e di euforia, ingenti dispositivi di sicurezza erano schierati in città ma per qualche ragione non sono serviti come deterrenza, la zona del pestaggio (la Pensilina Botta) è di quelle «difficili», le sanzioni dovrebbero essere più dure, bisogna rafforzare la sorveglianza dei servizi sociali, ci vogliono ancora più telecamere e più controlli, i social media sono il diavolo. E via discorrendo. Ognuna di queste considerazioni racchiude una sua piccola o minimale verità che va raccolta ma che non è sufficiente a spiegare né tantomeno a organizzare una risposta che non sia effimera a quella che oramai, senza per questo fare concitati allarmismi, è una deriva lenta ma evidente. Quando due 18.enni e tre minorenni picchiano selvaggiamente un 19.enne e si danno alla fuga con l’idea di non essere rintracciati (è accaduto il Primo agosto), e quando a questo fatto di violenza ne seguono altri simili la sera successiva richiamandone alla mente altri accaduti negli ultimi tempi, e non solo a Lugano, il problema è innanzitutto educativo e culturale. Non saranno un agente di polizia, una videocamera o una sanzione in più a risolverlo, ça va sans dire. Questi infatti sono mezzi, ci sia permesso dirlo, già «vecchi» dentro una società che è cambiata profondamente senza che la politica, la scuola e le famiglie se ne siano davvero accorte (o vogliano ammetterlo).
Il disagio e di conseguenza, in alcuni casi, la violenza, hanno preso stabilmente casa nella testa e nel cuore di decine e forse centinaia di giovani e si stanno espandendo giorno dopo giorno. È lì che bisogna intervenire, al netto del fatto che le forze dell’ordine devono dare il massimo e che ogni municipio, anche il più piccolo, ha una sua dignità sociale che deve difendere. Si tratta, ci sia permesso, di un lungo lavoro che in primis i genitori devono fare su loro stessi, acquisendo un maggiore atteggiamento critico e oppositivo verso una cultura nella quale, volenti o nolenti, siamo tutti immersi, complici senz’altro le nuove tecnologie e internet in particolare. La solida e tradizionalista Svizzera non fa più eccezione. Parliamo di un’onda lunga di nichilismo, di barbarie e di amoralità che, agendo allo stesso tempo sulle psicologie individuali e sulle istanze culturali, sta sommergendo quei valori che, almeno fino a qualche decennio fa, rappresentavano semplicemente il modo giusto e sereno di porsi riguardo alla vita e agli impegni che essa comporta, fin da adolescenti.
Non si tratta certo di tornare a posizioni retrive o bacchettone. Piuttosto, bisogna fare in modo che il divertimento becero, la movida sciamannata, la violenza usata come sfogo per gravi difficoltà interiori non diventino, agli occhi di giovani problematici, l’unica modalità di vivere la propria giovinezza, se non addirittura un dogma. Chi altri può condurre una simile battaglia, se non le famiglie e le istituzioni? In una società sempre più confusa, esse devono reagire e trovare il coraggio di educare e, naturalmente, quello di essere di esempio. E sia chiaro: non è e non sarà mai una battaglia contro i giovani, ma per i giovani.