L'editoriale

Zelensky, la guerra, la meta e la regia

La celebre teoria del filosofo e sociologo canadese degli anni Sessanta del secolo scorso Marshall McLuhan è quanto mai valida anche in una guerra del ventunesimo secolo come quella ucraina
Gerardo Morina
Gerardo Morina
22.03.2022 06:00

La celebre teoria del filosofo e sociologo canadese degli anni Sessanta del secolo scorso Marshall McLuhan è quanto mai valida anche in una guerra del ventunesimo secolo come quella ucraina. Del fatto che «il medium è il messaggio», nonché della possibilità che la comunicazione in sé assuma maggiore importanza del messaggio che si vuole trasmettere, sono consapevoli sia il presidente russo Vladimir Putin sia quello ucraino Volodymyr Zelensky. Il linguaggio comunicativo del primo è più inconscio e simbolico, proprio di un uomo di poche parole com’è quello di un ex agente del KGB: l’andatura da maschio alfa, lo sguardo algido, l’uso di tavoli di oltre sei metri per sottolineare la distanza con i suoi interlocutori.

Zelensky ha invece la comunicazione nel sangue, come si addice a un ex attore che conosce a menadito l’arte dell’oratoria tagliata ad hoc, oltre che delle pause al momento giusto. La guerra in Ucraina l’ha trasformato da attore a presidente-eroe, e Zelensky si è calato perfettamente nel ruolo più importante della sua vita. Indossa una felpa verde e i pantaloni militari, come un soldato qualunque. Guarda fisso nella telecamera, cammina disinvolto con la mano sinistra nella tasca dei pantaloni. 
I suoi discorsi alla nazione e al mondo sembrano improvvisati, in realtà sono molto curati, frutto di una sapiente regia e di un esperto montaggio d’immagini. Finora si è rivolto in diretta ai Parlamenti dei grandi Paesi adattando il suo appello alle caratteristiche di ciascuna nazione, quasi predisponendole alle loro sensibilità di recepire il suo messaggio. A Londra avranno apprezzato l’immagine di Zelensky seduto sulla sua poltrona di cuoio di stile Chesterfield, quasi a evocare uno dei maggiori leader mondiali del passato, quel Winston Churchill di cui nel collegamento con la Camera dei Comuni ha richiamato il discorso pronunciato durante la Seconda guerra mondiale: continueremo a combattere per la nostra terra, a qualsiasi costo. Combatteremo nelle foreste, nei campi, sulle spiagge e per le strade.

Dietro tutto questo non c’è il nulla, ci sarebbe invece uno sceneggiatore di quarant’anni di nome Yuri Kostiuk con cui Zelensky iniziò a collaborare fin dal 2005, prima in un programma satirico, poi nella serie televisiva «Servitore del popolo» che gli diede la fama di cui si servì per diventare presidente nel 2019. E non è un caso che lo stesso Kostiuk sia oggi vicecapo dell’Ufficio di presidenza di Kiev.

All’irresponsabilità di Putin, Zelensky contrappone l’uso di parole dettate dalla ragione: «Noi e i russi siamo diversi, ma questo non è un motivo per essere nemici. Noi vogliamo determinare e costruire il nostro futuro con calma e onestà». A unire entrambi i giocatori di scacchi, l’aggredito e l’aggressore, è il tempo, che tuttavia non è eterno per nessuno dei due, tanto più che il costo della procrastinazione viene pagato a caro prezzo dalle vittime di questa guerra. Sotto questo profilo Zelensky mostra di avere un atteggiamento intransigente, dettato anche dalla sua speranza di trarre vantaggio dal fatto che l’esercito russo sembra impantanato alla periferia di Kiev. Il crescente numero di vittime in Ucraina lo costringe nello stesso tempo a considerare concessioni alla Russia per mettere fine al devastante conflitto, ma l’Occidente s’interroga su quali siano le vere intenzioni di Kiev, da cui vengono segnali contrastanti. Tanto più che un accordo avrà implicazioni sulla sicurezza europea e alcuni Paesi del fianco est della NATO temono un’intesa che possa concedere troppo al leader russo Vladimir Putin. «Sono pronto al dialogo, non alla capitolazione», insiste Zelensky, anche se i minuti pesano come giorni.

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