Hong Kong, il mago che legge la mano

Lo trovo senza difficoltà, al numero 9 della Queen’s Road, Hong Kong.
«Prego, si accomodi qui», dice in un inglese impeccabile indicandomi una poltrona in lacca nera dove siede un giovanotto, che subito mi cede il posto e si rannicchia su uno sgabello. Ha uno sguardo penentrante e al collo porta un ciondolo in giada a forma di tigre. Potrebbe essere indiano, ce ne sono molti nell’ex colonia inglese. O di qualche isola del Pacifico.
Mi rendo conto di non trovarmi in uno studio, bensì in una sorta di istituto di bellezza. Dalla coltre di incenso profumato fanno capolino lanterne cinesi e parrucche per Occidentali posate su manichini. Oltre a noi tre, non c’è nessuno. Mi avvicino perplessa alla mia postazione e prima che mi sieda l’uomo bisbiglia in cinese qualcosa che fa piegare in due dalle risate il giovane. Ovviamente non capisco. Tuttavia ho la netta sensazione che sia io l’oggetto del loro sghignazzare. «Probabilmente - penso - hanno individuato il nuovo pollo da spennare!».
La tentazione di girare i tacchi e andarmene è grande. Ma mi tornano in mente le raccomandazioni dell’amica. «Lui è un grande mago, con me non ne ha sbagliata una! Vedrai che ti stupirà», mi aveva detto giorni prima.
Metto da parte lo scetticismo e mi siedo offrendogli la mia mano sinistra. «Sono o non sono nel paese dei biscotti della fortuna?» mi dico, dandomi una motivazione tra il culinario e l’esoterico per restare.
Il mago osserva le linee della mia mano con grande attenzione: destino salute amore.
All’improvviso il suo sguardo si fa cupo. Gira e rigira il mio polso. Sembra molto preoccupato e più scrolla la testa e più mi scappa la ridarella.
Dopo parecchi minuti di silenzio di tomba mi guarda dritto negli occhi e sentenzia: «Morirai tra due anni!». Pago e lo mando a quel paese.
Quando pochi minuti dopo torno nel caos di Hong Kong, giro lo sguardo prima di attraversare la strada. D’accordo non credere ai furfanti, ma la prudenza non è mai troppa.
Proseguo la mia camminata lungo la Queen’s road, nel quartiere Central. È la strada più antica di Hong Kong, costruita dagli inglesi tra il 1841 e il 1843. L’ex colonia britannica è una delle città più densamente popolate del mondo.
La convivenza tra il vecchio e il nuovo è soprendente. Grattacieli all’avanguardia costruiti con ponteggi in bambù si alternano a vecchi palazzi con le terrazze zeppe di vestiti. Mi spiegano che qui gli appartamenti sono talmente piccoli che i balconi si trasformano in armadi.
La cultura occidentale si mescola alla perfezione con quella orientale.
Tra centri commerciali di lusso e gioiellerie da capogiro presidiate da uomini armati, incrocio alcune farmacie cinesi. Hanno resti di serpenti, code di scorpioni, pinne di squalo, polvere di corno di rinoceronte.
Mentre taglio a destra verso Hollywood road, la via degli antiquari, incrocio sul marcipiede un uomo che parla animatamente a un grosso scatolone nero che tiene vicino all’orecchio. Lo guardo allibita: è un telefonino portatile! «Ma qui sono tutti matti - mi dico guardando il poveretto con un certo disprezzo - telefonano non solo quando lavorano in ufficio ma pure quando camminano in strada, durante il tempo libero!».
Era il 1989. Allora non potevo immaginare che nel giro di vent’anni nessuno sarebbe più andato neppure in gabinetto senza telefonino.
Hong Kong aveva anticipato i tempi.