I santi di ieri

Scrivo queste righe il Mercoledì delle Ceneri, che quest’anno coincide con il giorno di San Valentino. Se confrontiamo il diverso destino di queste due ricorrenze nella società di oggi, l’inizio della Quaresima e la festa degli innamorati, balza subito all’occhio una profonda discrepanza: digiuno e penitenza sono scomparsi dall’orizzonte, mentre il santo è stato “salvato” dal consumismo e dalla globalizzazione delle abitudini e delle tradizioni. Non diversamente avviene, in altra stagione, tra i giorni dei morti e il carnevale autunnale dell’All Hallows Eve (Halloween, vigilia di Ognissanti in versione horror).
Ci si potrebbe chiedere come stiano i santi del nostro calendario: direi non molto bene, se penso che il monaco egiziano Antonio Abate (da non confondere con il francescano Antonio da Padova, in realtà portoghese) per decisione della Città di Lugano non è più ricordato durante la tradizionale distribuzione del pane ai bisognosi, che rimane il 17 gennaio vai a capire perché. A sant’Antonio è dedicata ancora oggi una delle più importanti chiese del borgo, cui per tre secoli si affiancò un convento di padri Somaschi e l’unica scuola superiore del Sottoceneri. Non per nulla l’intero quartiere era noto con il nome del santo. Non desta sorpresa quindi se nel corso dell’Ottocento al legato del canonico Domenico Somazzi, morto un 14 gennaio, si associò poi l’abitudine di far benedire il pane tre giorni più tardi, a testimonianza di una devozione molto sentita in città.
Sotto il nostro calendario superficiale, sempre più simile a quello che un pezzo alla volta ci facciamo imporre dall’esterno, esiste infatti una struttura profonda che ha contribuito a disegnare la nostra società nei suoi rapporti con il tempo e con la natura. Si sfogli il ricco volume di Roberto Bottinelli intitolato Orme di memoria, pubblicato da Fontana Edizioni: si vedrà fino a che punto, soltanto cento anni fa, a Lugano e dintorni la tradizione agricola e quella religiosa (non senza qualche accento paganeggiante) avevano formato le abitudini di un’intera popolazione.
La Città di Lugano non è nuova a simili gesti di autocensura: da anni è scomparso qualunque riferimento al Natale negli auguri ufficiali del mese di dicembre: per rispetto della diversità culturale presente sul territorio, immagino.
Altre istituzioni, non per forza meno sensibili, come la cantonale Pinacoteca Züst o il federale Museo Vela continuano invece a proporre sui volantini le più belle Natività delle loro collezioni. Entrambe le opzioni sono valide, purché rimanga una vera libertà di azione.
A Mendrisio, per dire, sono messi peggio con la questione dei mori alla corte di re Erode durante le processioni della Settimana Santa. Il cosiddetto blackface è una cosa seria e non andrebbe presa alla leggera: troppe persone ne hanno sofferto nella storia. Il dubbio è semmai se dobbiamo accogliere in toto e indiscriminatamente, oltre alle mode, anche i tormenti di quel “risentimento” (la parola è di Harold Bloom) che sempre più caratterizza la nostra epoca. Quante persone di colore sono state umiliate intenzionalmente sul territorio ticinese negli ultimi secoli? Sicuramente troppe, perché già una è di troppo, ma non al punto da metterci sullo stesso piano di nazioni coloniali e schiaviste per lunga e deprimente tradizione. Anche qui, si può fare, senza perdere però il senso della misura e dell’ironia. Io per esempio dipingerei di nero anche il Protagonista, perché è chiaro che un uomo semita del primo secolo non sarà stato bianco con gli occhi azzurri come il Gesù di Zeffirelli. Di fronte al preoccupante insorgere dell’antisemitismo mi meraviglia infine che nessuno abbia ancora chiesto di cambiare il nome alla Fünziún di Giüdée, o forse lo si tiene proprio per quello: in fondo è sempre colpa loro.