L'editoriale

Il fallimento del Chiasso e l’identità dei chiassesi

Il Chiasso è un passato ed è un futuro, ora è più facile riconoscerlo e ammetterlo – Il commento di Paolo Galli sul triste epilogo del club rossoblù e sulle sfide che attendono anche la Chiasso città
© CdT/ Chiara Zocchetti
Paolo Galli
27.01.2023 16:02

Una scritta sul muro di un edificio della vecchia Frisco Findus: «Cuscunà re di Chiasso». La si leggeva oltre la ramina che divide lo stadio dalla stradina che porta alla pista di pattinaggio. Francesco Cuscunà. Un giocatore che per altri club e per altri tifosi sarebbe stato uno dei tanti signori nessuno, a Chiasso, verso la fine degli anni Novanta, venne incoronato re.

Non si è mai saputo chi fosse l’autore di quella scritta. Ma è diventata un simbolo. Lo è ancora di più oggi. Oggi che il Chiasso è fallito. La prima squadra rossoblù non esiste più, non gioca più. Non c’è nulla più da vedere, nel Riva IV. Resistono però i fantasmi del Chiasso che fu. Resiste il ricordo di Cuscunà, affiancato nella figurina dell’album Panini 1999 da Mirko Negri, uno dei tre fratelli Negri. Resistono i simboli di epoche passate.

I chiassesi - e allarghiamo il discorso anche ai non tifosi - amano guardare al passato, lo fanno un po’ con ironia e un po’, soprattutto, con nostalgia. Ricordano di quando si stava meglio, anche perché - stravolgendo il luogo comune - si stava meglio quando si stava meglio. Quando la cittadina era una piazza finanziaria affacciata sull’Italia, con i bar affollati, grossi marchi commerciali nelle vetrine e Corso Gottardo che si spacciava per quel che non era o che, comunque, non sarebbe più stato. Spuntavano palazzi che oggi non capiamo più. Oggi facciamo fatica a pensare che Chiasso era un’altra cosa. Ma lo sappiamo.

Sappiamo che anche la squadra, il Chiasso, era un’altra cosa. Era una cosa dei chiassesi, di cori stanchi, di birre tiepide e gelati all’ingrosso, di trombette stonate, di antipatie reciproche con i «cugini» di altri colori. Era una cosa di rari, ma comunque originali, fuoriclasse - «Puci» Riva, Altafini, Neumann, Milton e Rafael, per dirne solo alcuni - e di improbabili eroi.

Ci dicono, e lo vediamo anche noi, che oggi il calcio è cambiato, che quel Chiasso lì non è più possibile. Chiasso città è cambiata, il Chiasso e il calcio attorno sono cambiati. Fa parte del gioco. Ed è anche questo a favorire la facile nostalgia dei ricordi, l’uso del passato remoto. Ma è questo anche a rendere meno complesso il distacco dal Chiasso che è stato in questi ultimi anni, da un’evidente ingerenza di altri affari e altri scopi, da giocatori che - pur senza colpe - non sarebbero comunque mai stati immortalati con una scritta sui muri di questo o quell’altro edificio.

Il Chiasso non c’era già più. O meglio, ha continuato e continua a esserci nel settore giovanile. L’associazione vive, al di là della SA, dei giri di giocatori e degli interessi economici. E ciò garantisce alla realtà rossoblù un futuro. Il Chiasso è un passato ed è un futuro. Ora è più facile riconoscerlo e ammetterlo. È più facile immaginare qualcosa di diverso, qualcosa che somigli al passato ma che, al contempo, si affranchi da esso, per non rischiare di risultare anacronistico, malinconico. Non sarà facile. Altre realtà cantonali, pur passate da simili drammi, dimostrano una certa fatica nel rimanere lontane da figure esotiche e diversamente interessate, e quindi dal rischio di tornare a incappare in errori già commessi.

L’esercizio che attende il nuovo Chiasso - e sappiamo che lo zoccolo duro dei tifosi non desidera sconti né scorciatoie - è certo più stimolante che non l’anonimato in cui era caduto. È un esercizio che dovrebbe stimolare anche la Chiasso città, in fondo, nel ridisegnarsi sulla base dei propri valori, di quella sua bellezza che solo i chiassesi possono riconoscere - e che per altri è la sua stessa bruttezza -, senza recriminare ma ugualmente senza cercare sotterfugi. Comprendiamo Fabio Pusterla quando paragona Chiasso a Dublino, «perché i suoi odori, la stoffa e il metallo dei giorni, i colori delle notti e il rumore dei treni mi parevano identici a quelli che scoprivo e riconoscevo in quel libro», nei Dubliners di Joyce. Chiasso è frontiera e ferrovia, lo sarà sempre, ma è anche cultura, è anche integrazione. È quel jazz che esce soffuso dalla porta del bar Pace, mentre fuori i vagoni merci sferragliano.

È un’identità da ritrovare. L’associazione del FC Chiasso ha la responsabilità di ridare un’anima alla sua prima squadra, provando poi a preservarla il più possibile. Lo abbiamo già detto: il calcio, oggi, non è luogo di buone intenzioni, per cui non ci illudiamo. È solo bello pensarlo, pensare a una squadretta in cui specchiarsi. Pur riconoscendone il paradosso, arriviamo a dire che il momento della speranza inizia adesso per il Chiasso, oggi che si è spenta l’attesa dell’ennesimo salvataggio.

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