Il mito del Titanic

Passeggiando nei giorni dopo Capodanno (a gennaio la natura sembra ferma, sospesa, in attesa) lungo la «strada alta» di Leventina mi sono fermato a Osco, ho aperto il cancello del cimitero. Ho voluto rivedere il piccolo monumento dedicato, nel 1912, a uno dei quattro giovani svizzero italiani camerieri sul Titanic e morti nel naufragio. Il giovane si chiamava Alessandro Pedrini, aveva 21 anni. I suoi genitori e fratelli, ricevuta la lettera dalla compagnia navale che annunciava il ritrovamento del corpo (i cadaveri furono seppelliti in mare per ragioni igieniche, ai parenti furono inviati 50 franchi quale risarcimento…) vollero costruire un piccolo monumento, con la sagoma della prua di una nave e una scritta: «Con fervida fede di lavoro ed ancor quasi in tenera età, emigrava in terre lontane vago e fidente in un nuovo avvenire. Miseramente in una notte tragica trovava morte nell’oceano scomparendo con il Titanic. I desolati genitori e i fratelli posero». Rimessomi in cammino ho pensato a lungo a quel destino, alla fatalità enigmatica del caso. Tornato a casa non mi usciva dalla mente quella lontana tragedia di 112 anni fa, quando il Titanic, nuova meraviglia della tecnica, era calato a picco dopo aver cozzato nella notte contro un iceberg. E così, per un rimando di memoria, sono andato a cercare il bellissimo CD di Francesco De Gregori, «Titanic». Tre canzoni di quella raccolta sono appunto dedicate al naufragio. Riascoltandole, pensavo a come quel disastro sia assurto negli anni a simbolo di fatalità imprevista, di mistero del caso, di precarietà delle esistenze. Mi sono messo a immaginare la grande nave invincibile e fragile come un destino, dai ponti di prima classe con passeggeri sulle sdraio a guardare il mare avvolti in calde coperte e camerieri che servono tè e cocktails, giù giù fino alle stive dei viaggiatori popolani e ancora più giù nel ventre profondo abitato dai fuochisti. Il bastimento enorme contiene tutte le stratificazioni sociali e gli enigmi del caso: le brutture e i lampi di bellezza, il mal di mare, le seduzioni, l’infelicità o la noia curate con lo champagne, la voglia di nuovo mondo, il sogno americano, la nostalgia per la terra lasciata e il desiderio di terra nuova. Fra le molte cose, De Gregori mette in bocca a una madre rimasta a riva parole di straziante addio al proprio ragazzo salpato per emigrare: «Figlio con quali occhi e quale pena dentro al cuore (ti penso) adesso che la nave se ne è andata, …figlio che avevi tutto e che non ti mancava niente e andrai a confondere la tua faccia con la faccia dell’altra gente…» E il figlio invece è tutto fiducioso, su questa nera nera nave che mi dicono che non può affondare». Nella notte seminata di stelle, su questo «mare nero come il petrolio», la nave va. A bordo si ride, si mangia, si fa l’amore, ci si corteggia e ci si invidia, ci si sente sicuri dando ordini ai camerieri, flirtando con il capitano («prima dell’arrivo mi farò baciare», pensa la ragazza «che a Parigi si è comprata un cappello» e desidera gli occhi di ghiaccio del comandante). Intanto fuori, nascosti, avanzano i primi ghiacci infidi e sinistri, quasi lunari. Dentro il guscio caldo di mille luci la nave va, la vita continua, l’orchestra di bordo suona, i tanghi e i valzer coltivano le voglie. Il mondo esterno, indecifrabile e freddo, è dimenticato: si rivolge appena qualche sguardo distratto al buio dagli oblò nelle soffici cabine o passeggiando sul ponte affondando il volto nella pelliccia profumata della compagna (occasionale o duratura, questo dipende). Ma il destino di ghiaccio è già segnato, la baldanza del capitano e l’aura di invincibile progresso tecnico non servono a dilazionare il disastro. E così avviene il cozzo contro l’inconoscibile forma di ghiaccio: cosa ne sappiamo noi della parte nascosta degli iceberg? Cosa ne sappiamo del mistero dei destini? Negli anni e nell’immaginario quella tragedia diventerà il simbolo del gran momento dell’impatto che prima o poi tocca a tutte le navigazioni delle vite, a tutte le esistenze in viaggio sul mare della terra.
In quanto a quel giovane cameriere leventinese perito nel naufragio, proprio nel centenario del disastro, nel 2012, è accaduta una cosa strana e commovente. Vuotando una vecchia soffitta di una casa di Osco è riaffiorata fra mille scartoffie ingiallite una cartolina: Il giovane Alessandro Pedrini, da Southampton dove stava per imbarcarsi sul Titanic, scriveva a una sorella: «Cara Maria, stasera parto sul più grande bastimento del mondo…». Un secolo dopo era saltato fuori quel saluto baldanzoso, ignaro del destino. A dirci che nessuno di noi può sapere cosa accadrà domani.