L'editoriale

In Sudan pericolose fonti di instabilità

Mentre le ambasciate presenti a Khartum, compresa quella svizzera, si sono viste costrette ad organizzare in fretta e furia la fuga dal Paese, il Segretario generale dell’ONU ha lanciato un accorato appello alla fine delle ostilità
Osvaldo Migotto
25.04.2023 06:00

La guerra civile scoppiata in Sudan lo scorso 15 aprile non fa che aggravare la crescente instabilità geopolitica che si registra in diverse parti del mondo. E così mentre le numerose ambasciate presenti a Khartum, compresa quella svizzera, si sono viste costrette ad organizzare in fretta e furia la fuga dal Paese dei propri funzionari e dei propri concittadini, ieri il Segretario generale dell’ONU Antonio Guterres ha lanciato un accorato appello alla fine delle ostilità, in quanto se il conflitto proseguisse «potrebbe inghiottire l'intera regione e oltre».

Un primo effetto destabilizzante, se il conflitto proseguisse ad oltranza, potrebbe venire da una fuga di massa dei civili sudanesi dal loro Paese. Per non parlare del possibile coinvolgimento di altre potenze regionali negli scontri armati che per ora si concentrano nella capitale, ma che potrebbero estendersi anche ad altre regioni. Per capire le origini di tale situazione esplosiva bisogna ripercorrere le fasi cruciali della storia di questo sfortunato Stato africano.

Il Sudan è confrontato con lotte tribali sin dalla sua indipendenza nel 1956. Ma il cammino di questo Paese africano è stato caratterizzato soprattutto dai colpi di Stato militari, come quello messo in atto dal generale Omar al-Bashir, che nel giugno del 1989 aveva destituito il premier democraticamente eletto, Sadiq al-Mahdi, per poi guidare il Sudan in modo dittatoriale per un trentennio.

L’ironia della sorte è che oggi a contendersi il potere a suon di cannonate sono i due generali che nel 2019, dopo le contestazioni popolari che avevano portato al siluramento di al-Bashir, si erano trovati a far parte del «Consiglio sovrano», ossia l’organo incaricato della transizione verso la democrazia con una coalizione civile. I due generali sono Abdel Fattah al-Burhan, attuale presidente del Sudan e Mohamed Hamdan Dagalo, suo vice. Nell’ottobre 2021 il generale al-Burhan aveva rovesciato il governo di transizione e instaurato un regime militare, diventando capo de facto del Paese. Dovendo tener conto delle forze presenti nel Paese, al-Burhan decise di nominare come suo vice il generale Dagalo, ossia l’uomo che lo scorso 15 aprile ha lanciato l’assalto ai palazzi del potere di Khartum alla guida delle sue Forze di supporto rapido (RFS). Il presidente sudanese proviene dalle comunità del Nilo centrale, che ha sempre detenuto il potere, mentre Dagalo rappresenta le tribù delle zone periferiche al confine con il Ciad.

Ma la popolazione sudanese da che parte sta? Secondo John Goodman, esperto di politica africana dell’Università di Strasburgo, Dagalo si dice favorevole al ritorno di un governo civile e al contenimento dell'islam politico. Nel 2019, durante un’ondata di proteste represse dall'esercito, i miliziani di Dagalo si erano rifiutati di sparare sulla folla e l’avevano protetta, accattivandosene le simpatie.

Un ruolo importante, nella pericolosa lotta di potere in atto in Sudan, è quello rivestito dagli alleati esterni dei due generali. Il presidente al-Burhan proviene dall'accademia militare egiziana e gode quindi delle simpatie del dittatore egiziano al-Sissi, che considera il Sudan come un suo territorio di influenza. Dal canto suo il generale Dagalo, che nel 2016 ha inviato i suoi uomini a combattere nello Yemen per conto degli Emirati, è considerato molto vicino al Governo di Abu Dhabi. Inoltre il condottiero delle milizie RFS non nasconde la sua vicinanza ai russi, tanto che si è detto aperto alla concessione a Mosca di una base navale sulla costa sudanese del Mar Rosso. La diplomazia internazionale dovrà quindi mettercela tutta per evitare che anche questo Paese diventi un luogo di confronto armato tra interessi internazionali contrapposti.

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